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Tumore del pancreas: per combatterlo servono le “pancreas unit”

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Adesso che la buriana di Covid-19 sembra perdere intensità, occorre ricalibrare le priorità della sanità pubblica. Tra queste, c’è l’assistenza ai malati oncologici: a partire da quei pazienti per cui anche un rinvio di poche settimane nella formulazione della diagnosi e nell’avvio del percorso terapeutico possono fare la differenza. Tra di loro, quelli con cui ho a che fare tutti i giorni: le persone affette da un tumore del pancreas. Di fronte, in questo caso, abbiamo una delle forme di cancro più aggressive. Il suo carico globale, come ricorda un articolo appena pubblicato su Nature, è raddoppiato negli ultimi 25 anni. Nel mondo occidentale, dov’è più diffuso, rappresenta la quarta causa di morte in ambito oncologico. E in Italia, senza andare lontano, miete ogni anno più vittime del tumore al seno e allo stomaco.

Serve un piano Marshall

Per questo motivo, di fronte a una malattia che, da qui a dieci anni, potrebbe diventare la seconda causa di morte tra quelle oncologiche, occorre mettere in campo risorse mai investite prima. Una sorta di “piano Marshall” in ambito oncologico. La progressiva uscita dall’emergenza sanitaria offre l’opportunità di riprendere in mano quei dossier nel frattempo impolveratisi sulle scrivanie di chi è chiamato a occuparsi di politica sanitaria: dal ministero della Salute alle Regioni, senza dimenticare il ruolo che è chiamata a svolgere un’agenzia importante come Agenas. In cima alla lista c’è la necessità di istituire le pancreas unit, strutture multidisciplinari al cui interno devono convivere tutte le professionalità chiamate a prendersi cura delle malattie (non soltanto) oncologiche di uno degli organi più complessi da curare. E dunque: dai gastroenterologi fino ai radioterapisti. Passando per gli oncologi, i chirurghi, gli anatomopatologi specializzati, i radiologi, gli psiconcologi e i nutrizionisti.

Così come accaduto nel caso del tumore al seno, con l’istituzione delle breast unit, mettere a disposizione dei cittadini dei centri specializzati nella ricerca e nella cura dei tumori del pancreas è il primo passo da compiere per dare una speranza in più a chi, scoperto di essere affetto da questa forma di cancro, nella quasi totalità dei casi vede accorciarsi improvvisamente l’orizzonte che lo separa dalla fine di quel percorso chiamato vita. La presenza di tutti i professionisti coinvolti nella gestione di questa malattia all’interno di una pancreas unit è fondamentale. Formulare una diagnosi di adenocarcinoma pancreatico in un centro con ridotta esperienza può portare per esempio i colleghi – radiologi, endoscopisti, anatomopatologi e oncologi – a sovrastimare o sottostimare i rischi della trasformazione maligna di una cisti, a ritardare una diagnosi oncologica o a operare un paziente che avrebbe potuto evitare di finire sotto i ferri.

La valutazione degli esiti della chirurgia – al momento unica possibilità per risolvere la malattia, ma indicata appena in 1 caso su 5 nel tumore del pancreas – offre l’unico risultato misurabile. La mortalità, nei centri che effettuano pochi interventi e non prevedono la compresenza di tutti gli specialisti indicati, è superiore al 10 per cento. Lo stesso scenario, osservato da un altro punto di vista, porta a dire che il rischio di morire a seguito di un intervento per l’asportazione di un adenocarcinoma del pancreas in un ospedale con poca esperienza aumenta del 400 per cento. Le malattie del pancreas, d’altra parte, richiedono una competenza particolare. Sono difficili da individuare e – di conseguenza – da curare. Il tumore del pancreas è, purtroppo, tra i più aggressivi: meno di un paziente su dieci risulta vivo a cinque anni dalla diagnosi. E intervenire sul pancreas è una delle procedure più complesse della chirurgia addominale. Queste sono le principali ragioni per cui l’assistenza a questi pazienti non può che essere affidata – come già accade nel Regno Unito, in Olanda, in Finlandia e in parte in Germania: per citare l’esempio di alcuni Paesi non troppo lontani dal nostro – a un numero limitato di centri.

La questione dei centri

È questo il primo passo da compiere per assicurare a tutti pazienti l’accesso a cure adeguate, garantendo un approccio multidisciplinare, l’umanizzazione delle cure e l’attenzione alla qualità della vita al di là del superamento della malattia. Da dove partire, allora? Dal consolidamento di quei centri che già rispondono ai requisiti richiesti e dall’individuazione e sviluppo di nuovi, facendo attenzione alla distribuzione sul territorio nazionale. I primi, in Italia, sono pochi. Come già denunciato su queste colonne, sono quasi tutti collocati nel Nord Italia. E, tra i nuovi pazienti che vi entrano ogni anno, quasi 1 su 2 arriva dal Centro e dal Sud Italia. Un dato senza termini di paragone, che fa del tumore del pancreas una delle principali cause di migrazione sanitaria.

Duplice è l’ingiustizia, in questo caso: sanitaria ed economica. Da una parte c’è chi si può permettere di andare a curarsi a centinaia di chilometri da casa in cambio di migliori chance di cura. Dall’altra c’è una quota maggioritaria di cittadini meridionali (6 su 10) che si ammala e finisce per essere assistita in strutture gravate da una mortalità operatoria pari o superiore al 10 per cento. Sì, perché questo è un dato medio, condizionato da valori anche di sei volte superiori registrati in alcuni ospedali in Puglia e Sicilia. Ciò equivale a dire che 6 pazienti su 10, tra coloro che finiscono nelle sale operatorie di centri con poca esperienza nel trattamento dei tumori del pancreas, muore entro 30 giorni dall’intervento. Qualcosa di inaccettabile, nel 2021 e in Italia. Senza trascurare il rovescio della medaglia: il carico sulle strutture di riferimento, chiamate a fare ogni giorno i salti mortali pur di fronteggiare quella che è ormai divenuta un’urgenza sanitaria.

Andare oltre simili storture, ora che il Covid-19 sembra mordere il freno, è un’urgenza di sanità pubblica. Quali requisiti dovrebbe avere un ospedale pronto ad assistere i pazienti con un tumore del pancreas? L’Italia, al momento, non ha mai regolamentato la materia. Con cinque colleghi – Gianpaolo Balzano, Giovanni Guarneri, Nicolò Pecorelli, Michele Reni e Gabriele Capurso – abbiamo provato a fornire un input per centralizzare gli interventi chirurgici. Un passo, quello descritto sulla rivista scientifica HPB, che potrebbe fare da preludio all’istituzione delle pancreas unit nei medesimi centri. Il modello prevede che le strutture autorizzate al trattamento di questa malattia dovrebbero effettuare almeno dieci resezioni all’anno, con una mortalità inferiore al 2 per cento. Ma siccome la chirurgia risulta indicata per una quota minoritaria di pazienti, il suo esito non può essere l’unico indicatore per valutare l’assistenza alle persone affette da un tumore del pancreas. Fondamentale è anche garantire liste di attesa compatibili con la malattia, qualità di cure indipendenti dalla chirurgia e distanze brevi (meno di un’ora) per la quasi totalità dei pazienti.

Per i pazienti rischi e disparità

Pur parlando anche da responsabile di una struttura che rispecchia i requisiti per essere definita di riferimento, al momento i pazienti con un tumore del pancreas sono esposti a rischi e a disparità inaccettabili. Lo sforzo che viene fatto nei centri più esperti equivale a quello di un marinaio che prova a tappare una falla nella chiglia della propria nave. Non è così che si può offrire una speranza a chi è chiamato a fare i conti con questa tremenda malattia. La richiesta che – in quanto presidente dell’Associazione Italiana per lo Studio del Pancreas (Aisp) – rivolgo al ministero della Salute è quella di prendere in mano fin dai prossimi giorni il dossier relativo all’istituzione delle pancreas unit. Ne servirebbe almeno una ogni 4-5 milioni di abitanti.

Nel frattempo, le Regioni hanno il dovere di fare da subito qualcosa per andare incontro ai bisogni dei propri cittadini. Finora, soprattutto quelle meridionali, si sono limitate perlopiù a rimborsare le prestazioni erogate in altre aree del Paese. Adesso tutte – comprese la Lombardia e il Veneto, che ospitano i centri a più alto volume nel trattamento delle neoplasie pancreatiche – sono invece chiamate a svolgere un lavoro più fine, articolato e per certi versi impopolare che preveda innanzitutto la selezione degli ospedali che, se non ancora in grado di fornire prestazioni ottimali, possono avviare un percorso in questo senso. Deve essere chiaro a tutti – colleghi, politici locali e cittadini – che il tumore del pancreas richiede la centralizzazione delle cure in un numero limitato di centri. Alla popolazione occorre spiegarne con lealtà i perché, ma soprattutto offrire l’opportunità di curare questa malattia in un ospedale che sia raggiungibile nell’arco di un’ora. È questo quello che si può e si deve pretendere: non la soluzione nell’ospedale più vicino, senza sapere con quali prospettive.

Obiettivo collaborazione

Una volta individuati i centri di riferimento, le Regioni sono inoltre chiamate a creare uno specifico percorso di formazione per gli specialisti, alla realizzazione dei servizi essenziali per formulare una corretta diagnosi e per gestire le possibili complicanze chirurgiche e a monitorare i risultati. È bene che la politica sappia che gli specialisti più esperti nel trattamento del tumore del pancreas sono da tempo disponibili ad attivare collaborazioni su tutto il territorio nazionale per andare verso una maggiore omogeneizzazione delle possibilità di cura. Soltanto in questo modo potremo cercare di migliorare la sopravvivenza e la qualità della vita di tutti i malati affetti da tumore del pancreas: che abbiano la possibilità di essere operati o che possano soltanto andare incontro a un percorso di cura oncologico.

*Direttore del Centro di Chirurgia del Pancreas dell’Irccs Ospedale San Raffaele di Milano e Presidente dell’Associazione Italiana per lo Studio del Pancreas (Aisp)



www.repubblica.it 2021-05-26 14:32:11

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