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“La mia depressione post partum. Non più una donna, ma solo una madre”

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“POCHI minuti e tutto cambia. Non si torna indietro, mai. Nasce uno bambino e a quel punto non si è più donna, ma solo madre. La società ti guarda solo così. Hai perso la tua identità, per sempre”. Parla così Ariana Harwicz autrice di ‘Ammazzati amore mio’ (edizioni Ponte alle Grazie), un romanzo che descrive la vita di una donna che abita con il marito, il figlio di sei mesi e la suocera in un angolo remoto della campagna francese. Un’esistenza normale, apparentemente senza drammi. Ma è un’illusione perché la protagonista senza nome racconta un anno e mezzo di lotta contro costrizioni psicologiche e sociali. Le regole che combatte sono: la maternità, l’amore, il matrimonio e la famiglia, considerati gli unici obiettivi possibili per chi nasce femmina. Per lei sono gioghi a cui le donne devono piegarsi per essere accettate. Chi non lo fa si ammala. Ecco allora la malattia, la depressione post partum, la follia.

Ariana Harwicz parliamo della maternità della sua protagonista. C’è il rifiuto di una vita che si ripropone per schermi?

“Nei miei romanzi non parlo solo di maternità, ma di come fa cambiare le vite delle donne. La maternità ci fa diventare delle estranee. Siamo in terra straniera, come la protagonista del libro, che vive in Francia ma non è francese. Non conosciamo la sua nazionalità. Diventando mamme, diventiamo estranee al nostro essere più profondo, alla nostra cultura al nostro paese, alla nostra famiglia. In modo più radicale si è estranei anche al propro figlio. Penso che sia questa la filosofia che scatenano i miei romanzi . La maternità per i miei personaggi, come in ‘Ammazzati amore mio, rappresenta l’esilio. Le donne da un giorno all’altro diventano madri e a quel punto sono viste solo in questa nuova veste. Sono solo ‘madri’ per la società, per la loro famiglia. Si travestono da ‘‘mamme’  e sono solo quello. E’ una metamorfosi completa, che risulta molto più pesante oggi rispetto al passato. Queste giovani madri non riescono a immedesimarsi e a capire questo ruolo di “mamma”. Non accettano questo ruolo che la società impone loro”.

Nel libro la giovane madre è molto sola. Vive in una situazione alienante

“Nel contesto la donna di questo romanzo abita in una casa vecchia, cadente, che si trova in campagna, in una zona rurale. Non è francese ed è molto isolata. Non è del posto e questo la rende diversa anche per gli abitanti del paesino dove vive. E’ madre, ma non si riconosce in questo ruolo. In diversi episodi, fugge. Scappa per allontanarsi dalla mentalità contadina che la soffoca. C’è un detto famoso: ‘Piccolo villaggio, inferno grande’. Per lei la vita è un inferno: i vicini e le persone del villaggio la isolano ma non le danno tregua. La osservano in continuazione. Questo la porta a isolarsi e a diventare quasi autistica, completamente alienata”.

Anche lei è argentina e vive in Francia, abita a Parigi e passa molto tempo in un piccolo villaggio di campagna, lungo la Loira. Il libro è autobiografico?
“Non è strettamente autobiografico anche se anche io sono madre, straniera in Francia e conosco la campagna francese. C’è una distanza con la realtà, quella di cui parlavano autori come Becket e Brecht, ma si tende ad avvicinarsi molto a quello di cui si scrive. Quando scrivo sono io  e non lo sono. Posso descrivere qualche cosa che non conosco? No. Ma so anche che non mi è possibile parlare in modo aperto e libero di me stessa, dei miei pensieri più profondi. Riconosco che c’è un elemento autobiografico. Ho vissuto situazioni simili. La scrittura è uno specchio che riprende la realtà, ma lo fa in modo completamente deformato”.

Nel libro lei descrive la depressione post partum. Ma il tema del disagio mentale è presente in altre sue opere. Come mai?

“Descrivo la follia, l’isolamento, l’autismo, la depressione post partum. Il mio romanzo non ha un rapporto reale con queste malattie ma lo ha da un punto di vista metaforico. Non parliamo di una depressione, né di una malattia mentale che potrebbe essere diagnosticata da un medico. Ma nel libro la protagonista viene internata in una casa di cura per malati mentali. Ce la porta il marito e qui ritroviamo ancora lo sguardo della società su di lei. Tutto questo la opprime. La sua mentalità non coincide con il pensiero dominante del villaggio, né con quello della società si aspetta dalla maternità. Lei diventa oggetto di pettegolezzi ed è esclusa dagli altri. E’ un’estranea. Forse folle in questo senso. Ma da un punto vista clinico non lo è. Nei romanzi i miei protagonisti sono dei malati. Ma sono matti loro o è stata la società in cui vivono a farli ammalare?”.

Che rapporto ha la donna con la sua depressione?

“Non è malata in senso stretto. C’è quasi una recita, una rappresentazione. Per lei dire di essere malata è solo un modo per sfuggire allo sguardo degli altri. Per dire lasciatemi in pace”.

Cosa pensa del figlio la protagonista del libro?
“Lei non è una madre assassina, né pericolosa per il figlio, non è pazza, ma non è una donna ‘normale’. E’ ironica quando parla della sua funzione di madre nella società. Lei dice ironicamente: ‘Vengo da una famiglia normale’. Ma cosa nasconde la normalità. A volte tratta il bimbo come un individuo, altre come un animale. Oppure come uno sconosciuto. Non gli farà del male, ma ricorda in ogni momento quanto le sia difficile immedesimarsi in questo ruolo di madre. Il fatto che odia la maternità. Parla della fatica di essere madre e di quanto sia difficile caricarsi di queste responsabilità. Non vuole indossare ‘la maschera’ della donna perfetta. E’ una relazione ambivalente”.

La protagonista ha una vita sessuale molto attiva. Anche qui c’è un tabù da superare

Direi che l’erotismo, l’orgasmo, il piacere del corpo è un tabù in una donna incinta o che ha appena partorito. Una gestante o una madre non può essere un essere che desidera. Non si può parlare di orgasmo o penetrazione. Nella nostra società ci sono due tipi di donne: quella pornografica, oggetto di feticismo, e la madre. La madre non può desiderare. Nel libro lei fa sesso con l’amante e il marito. Ma i vicini che la osservano la considerano perversa. Una persona deviata. Anche qui lei è controllata e quello che fa diventa peccaminoso nello sguardo dell’altro. E per lei, così giovane e piena di pulsioni sessuali, il bambino è un elemento estraneo che le impone una maternità priva di sessualità”.

Che ruolo ha il cervo che appare nel racconto?

“Il cervo è un simbolo. E’ realtà ma anche qualche cosa che non c’è. Per qualcuno è il sesso maschile, per altri è la libertà perché non lo si può prendere, catturare. Secondo altri è la femminilità, per altri è il padre, il figlio o l’amante. E’ quello che non conosciamo. Tutto è vero. Per la protagonista del romanzo è tutto quello che non è umano. Non è suo marito, non è il suo amante e neanche suo figlio. E’ il simbolo di tutto quello che cerca, tutto quello che non conosciamo. E’ un elemento ch sfugge a qualsiasi tipo di alienazione”.

 

 

 



www.repubblica.it 2021-06-01 10:53:35

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