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I primi ricordi? Già a due anni e mezzo

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Carol Peterson della Memorial University of Newfoundland è una ricercatrice da anni impegnata a far luce sul nostro passato, anche quello che crediamo di non ricordare. Peterson infatti è una cacciatrice di memorie, interessata a capire quali sono i ricordi più vecchi che possiamo ripescare dalla memoria, come funziona e cosa influenza tutto questo.

Oggi firma un articolo sulle pagine di Memory dedicato proprio alle memorie precoci e all’amnesia infantile, in cui sostanzialmente afferma che spesso ricordiamo cose che arrivano da un passato più lontano di quanto crediamo, complici anche gli errori che facciamo nel datare questo passato, credendolo più vicino di quello che è. Ma soprattutto, dice, le nostre memorie più lontane non sono qualcosa di statico, sono piuttosto fluide.

Scoprire a quando risalgono i primi ricordi non è semplice. Se molti studi e ricerche, racconta Peterson, fanno risalire i primi ricordi a 3-4 anni, le differenze di metodologia tra gli studi, il contesto, ma anche la presenza di numerosi fattori in grado di influenzare le risposte (dalla cultura, all’ambiente e alla famiglia in cui si è cresciuti) rendono difficile ritenere il dato affidabile. Senza contare che le cose cambiano quando si chiede di stabilire i primissimi ricordi a degli adulti o a dei ragazzi e bambini (più precoci) e che le riposte date dai partecipanti possono cambiare anche nel tempo.

Tutto questo, scrive Peterson, dimostra in sostanza come la memoria sia qualcosa al tempo stesso di fluido e malleabile e che pertanto anche la stessa età dei primi ricordi è per così dire variabile, spiega. Ma in generale risale a quando siamo piccoli, molto piccoli. Al netto, ovviamente, di tutti gli errori che si fanno sulle date, precisa Peterson e a cui siamo tutti soggetti.

Osservando le risposte date da alcuni bambini nel corso di alcuni suoi studi, Peterson ha notato non solo che a distanza di tempo la memoria più precoce ricordata può cambiare ma che più si indaga sul tema più ricordi emergono, anche più precoci. Questo, spiega, porta a credere che più che un singolo primo ricordo ne esistano diversi nella mente di ciascuno: “Sembra esserci un pool di potenziali ricordi da cui sia gli adulti che i bambini possono pescare”, ha detto. Aggiungendo a questo il fatto che spesso si tende a credersi più grandi di quanto effettivamente si era all’epoca, per Peterson, l’età dei primi ricordi potrebbe essere quella dei due anni e mezzo. 

“L’amnesia infantile è un fenomeno molto affascinante, di cui sappiamo molto poco dal punto di vista biologico – commenta Elvira De Leonibus dell’Istituto di biochimica e biologia cellulare, esperta di neurobiologa della memoria – Questo lavoro mette bene in evidenza le difficoltà metodologiche per il suo studio, in quanto come sappiamo la memoria è ricostruttiva e quando cerchiamo di ricordare un evento la ricostruiamo sulla base di inferenze e anche cercando di attribuire un significato alla sequenza degli eventi. È inoltre molto difficile separare le nostre memorie da quelli che sono i racconti recenti che i nostri genitori fanno degli eventi accaduti prima dei 5 anni”.

Ma ci sono anche ragioni biologiche che rendono difficile far luce su quello che è accaduto nei nostri primissimi anni di vita, va avanti la ricercatrice: “Una delle teorie biologiche che tentano di spiegare l’amnesia infantile, che riguarda solo i ricordi consapevoli, si focalizza sui cambiamenti post-natali che avvengono nello sviluppo del cervello. Lo sviluppo del cervello continua durante la fase post-natale, soprattutto per alcune aree, tra cui l’ippocampo”.

Il risultato, a differenza di abilità acquisite da piccoli (come camminare o parlare) che non richiedono un pieno coinvolgimento delle aree neocorticali, va avanti De Leonibus, è che i ricordi consapevoli diventano per così dire labili: “Il fatto che durante i primi anni di vita il cervello vada incontro ad un importante aumento di volume con sviluppo e riarrangiamento delle reti neurali, fa sì che le memorie esplicite, consapevoli, acquisite in quegli anni vengano perse – per effetto di rimodulazione dei contatti sinaptici – oppure siano presenti ma di difficile accesso per effetto di sovrascritture o cambiamenti di registri”. Accanto a questo, continua l’esperta, va considerato più in generale il fatto che il decadimento dei ricordi nel tempo è un processo spontaneo, “dovuto a processi neuronali come, per esempio, la perdita delle connessioni sinaptiche coinvolte nell’elaborazione di quelle memorie”.

Come scrive Peterson, anche la ricercatrice del Cnr è convinta che d’aiuto per la ricerca sull’amnesia infantile sarà avere a disposizione delle date verificate, con cui confrontare i ricordi riferiti e inevitabilmente influenzati da diversi fattori e suscettibili di errori, tanto da parte dei bambini che degli adulti.

Non senza rischi però. “Probabilmente l’era tecnologica in cui viviamo registrerà molti dei nostri ricordi, creando una memoria esterna, su cui gli scienziati potrebbero lavorare per superare i limiti metodologici dello studio dell’amnesia infantile, datando fatti, eventi, verificando il ricordo di dettagli. Si spera – conclude De Leonibus – che il fatto di avere una memoria esterna per depositare i nostri ricordi, non atrofizzi il nostro ippocampo, spogliandolo della nostra storia personale”.



www.repubblica.it 2021-06-22 16:00:00

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