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I rischi delle protesi al seno e il ruolo del sistema immunitario

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Questa settimana, nella newsletter di Salute Seno (qui il link per iscriversi gratuitamente)  torniamo a parlare di protesi al seno e del possibile aumento di rischio di una forma molto rara di linfoma che è stata associata unicamente agli impianti con superficie ruvida.

Lo facciamo perché c’è un certo fermento: le aziende stanno sviluppando la sesta generazione di protesi e finanziano ricerche. E una di queste – condotta niente meno che dal MIT di Boston, in collaborazione (tra gli altri) con l’MD Anderson Cancer Center di Houston – è stata appena pubblicata sulle pagine di una importante rivista scientifica, Nature Biomedical Engineering.

Per la prima volta è stato analizzato il modo in cui le cellule del sistema immunitario reagiscono all’impianto di diversi tipi di protesi mammarie in silicone: i risultati mostrano che quelle con una superficie più ruvida danno luogo a uno stato infiammatorio locale maggiore che può provocare questo particolare linfoma. Le protesi con texture ruvida sono state introdotte negli anni ’80 e oggi sono le più utilizzate per la ricostruzione del seno dopo un tumore, perché generalmente considerate migliori di quelle lisce. 

Cosa c’entra il linfoma con le protesi

Si parla del “linfoma anaplastico a grandi cellule associato alle protesi mammarie” (BIA-ALCL, sigla che sta per Breast Implant-Associated Anaplastic Large Cell Lymphoma), perché si sviluppa proprio a ridosso dell’impianto. Questo linfoma interessa i linfociti T, che sono cellule del sistema immunitario. Non si tratta di una malattia aggressiva: procede lentamente e, se preso in tempo, quasi sempre si risolve con la rimozione “en bloc” della protesi e della capsula periprotesica, anche se talvolta sono necessarie la chemioterapia o la radioterapia.

Come detto, inoltre, l’incidenza è molto bassa: negli Usa, per esempio, dove vengono impiantate sulle 400 mila protesi ogni anno, dal 2010 si sono registrati circa 450 casi, mentre in Europa ad oggi se ne contano 468. “In realtà, però, il 95% delle protesi impiantate negli Usa sono con superficie liscia e, se si considerano solo le donne con protesi ruvide o molto ruvide, la probabilità che si verifichi il linfoma aumenta, variando da 1 caso ogni 86.000 a 1 ogni 2.300 donne, a seconda del tipo di protesi”, sottolinea Fabio Santanelli di Pompeo, direttore dell’Unità Operativa di Chirurgia Plastica dell’Azienda Ospedaliera Sant’Andrea e professore di Chirurgia plastica presso l’Università “Sapienza” di Roma: “Questo va detto non per generare allarmismi, che non sono giustificati, ma perché è importante che le donne sappiano che esiste un possibile rischio, perché vengano informate correttamente anche del tipo di protesi che è stata – o che verrà – loro impiantata, che finalmente si completi l’attivazione del registro delle protesi mammarie. Negare un problema, seppure di piccola entità, non porta alcun vantaggio: tutte le donne, e a maggior ragione le pazienti che mettono una protesi dopo un tumore, devono poter disporre delle informazioni per valutare rischi e benefici. In particolare, nel loro caso la predisposizione genetica ai tumori potrebbe far salire, secondo il Memorial Sloan Kettering Cancer Center di New York, tale rischio fino ad 1 caso ogni 335 donne portatrici di protesi”.

La storia

Ecco un breve riassunto della storia che ci ha portato fin qui. I primi sospetti di una possibile associazione tra protesi ruvide e linfoma anaplastico a grandi cellule si erano avuti nel 2011, quando la Food and Drug Administration statunitense riportò che un numero anomalo di casi riguardavano l’area intorno alla protesi mammaria in donne che avevano eseguito un intervento estetico o ricostruttivo. In seguito, nel 2016, l’Organizzazione mondiale della sanità aveva riconosciuto e definito questa particolare e rarissima forma di linfoma associata agli impianti.

Nel 2017, in Europa, il Comitato scientifico della Commissione Europea dedicato alla sicurezza dei consumatori e ai pericoli emergenti per la salute (Scientific Committee on Health Environmental and Emerging Risks – SCHEER) raccomandava alle società scientifiche di condurre una valutazione più approfondita poiché, data la bassa incidenza, i dati non consentivano di fare una valutazione del rischio. Intanto la Francia si muoveva fin dal 2011 per conto proprio, con un programma di sorveglianza promosso dalla Direction générale de la santé, e dall’aprile 2019 metteva al bando 13 modelli di protesi ruvide. Il resto del mondo l’avrebbe seguita appena tre mesi più tardi.

Cosa dice l’ultimo rapporto europeo e la discrepanza italiana

L’ultimo capitolo della vicenda risale allo scorso marzo, quando la SCHEER ha pubblicato un nuovo rapporto. Le conclusioni? Oggi possiamo affermare che esiste un nesso causale tra l’impianto di protesi mammarie testurizzate e lo sviluppo del BIA-ALCL, con un “grado di evidenza moderato”. Eppure, ad oggi il sito del nostro Ministero della Salute riporta chela Scientific Committee on Health Environmental and Emerging Risks (SCHEER), nuovamente interrogata sulla sicurezza delle protesi mammarie in relazione alla problematica del BIA-ALCL, dichiara l’assenza di evidenze scientifiche riguardo la possibile correlazione tra l’insorgenza di questa patologia e la protesi mammaria“.

A fronte di questa confusione è lecito chiedersi: esistono o no le prove di un aumento del rischio? “Va sottolineato – commenta Santanelli – che il grado moderato, 4° su una scala di 5 gradi, è il più forte che può essere assegnato sulla base della sola linea di evidenza primaria epidemiologica”, spiega Santanelli di Pompeo, che ha collaborato alla stesura del documento: “Il gruppo incaricato della SCHEER ha lavorato per 18 mesi con sei esperti selezionati da tutto il mondo per arrivare a questa conclusione. Pur conoscendo il ruolo della predisposizione genetica e, a livello cellulare, il meccanismo patogenetico dell’infiammazione cronica, quello che ancora manca è la spiegazione di cosa esattamente provochi tale infiammazione che può scatenare lo sviluppo del linfoma”.

Lo studio del MIT

Il nuovo studio tenta di fare luce proprio su questo aspetto. I nomi degli scienziati coinvolti sono importanti: l’autore senior è Robert Langer, ingegnere chimico del MIT di Boston, tra i principali finanziatori dell’azienda Moderna (sì, quella del vaccino per Covid-19), e che possiede azioni anche dell’azienda che ha sponsorizzato la ricerca, Establishment Labs

Le sperimentazioni sono state condotte su modelli animali (conigli e topi), riproducendo protesi mammarie in miniatura di 5 modelli in commercio, e sono stati eseguiti test in vitro su linee cellulari. I risultati sono stati poi incrociati con le analisi effettuate sui tessuti prelevati da pazienti che avevano sviluppato il BIA-ALCL. I modelli di protesi considerati andavano da una superficie liscia a una micro-testurizzata con “punte” di appena 4 micron (millesimi di millimetro) di altezza, fino a una superficie fortemente testurizzate (con “punte” di 80 micron).

I ricercatori hanno osservato che la superficie di una protesi può influire fortemente sulla risposta immunitaria e che, agendo sull’architettura, tale risposta può essere modulata per ridurre al minimo l’infiammazione e la formazione di tessuto fibrotico. Meno ruvida è la superficie, meglio è per i tessuti che l’accolgono, sebbene la testurizzazione lievemente ruvida (4 micron) sia risultata meno pro-infiammatoria di quella liscia. Molto resta comunque da capire su come il sistema immunitario orchestri la sua risposta alla protesi. 

I prossimi passi

“C’è grande interesse – conclude Santanelli di Pompeo – e anche il nostro gruppo di ricerca della Sapienza sta parallelamente conducendo in questo ambito uno studio indipendente presso l’Istituto Superiore di Sanità, finanziato da diverse aziende produttrici di protesi concorrenti tra di loro, con risultati sovrapponibili che saranno a breve pubblicati. Nel frattempo il messaggio per le pazienti che hanno impianti non è quello di allarmarsi, ma semplicemente di avere un po’ più di attenzione all’insorgenza di possibili sintomi quale l’ingrandimento di una delle due mammelle che può essere dovuto alla formazione di un sieroma, eventualmente parlarne con medici esperti e continuare a fare i normali controlli”. Nuovi aggiornamenti sono attesi per il prossimo ottobre, quando a Roma si terrà la terza edizione della World Consensus Conference on BIA-ALCL, organizzata dallo stesso Santanelli insieme a uno degli autori del nuovo studio, Mark Clemens, dell’MD Anderson Cancer Center.



www.repubblica.it 2021-06-25 13:18:15

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