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Terapie ormonali: possono prevenire l’Alzheimer?

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Un nuovo studio condotto dall’Università delle Scienze della Salute in Arizona ha rilevato che le donne in terapia ormonale avevano fino al 58% in meno di probabilità di sviluppare malattie neuro-degenerative tra cui il morbo di Alzheimer. La riduzione del rischio variava in base al tipo, alla via di somministrazione e alla durata della terapia ormonale. I risultati potrebbero portare allo sviluppo di un nuovo approccio di medicina di precisione per prevenire le malattie neurodegenerative. Ma questo nuovo studio va in controtendenza rispetto ad altre ricerche dalle quali è emerso che, al contrario, gli ormoni possono avere un effetto negativo sulle funzioni cognitive. Come stanno allora le cose? Lo abbiamo chiesto al professor Paolo Maria Rossini, Direttore Dipartimento neuroscienze e Neuroriabilitazione Irrcs San Raffaele, Roma.

La ricerca sul ruolo protettivo degli estrogeni

Lo studio, pubblicato su Alzheimer’s & Dementia: Translational Research & Clinical Interventions, ha scoperto che le donne sottoposte a terapia ormonale in menopausa per sei anni o più avevano il 79% in meno di probabilità di sviluppare l’Alzheimer e il 77% in meno di probabilità di sviluppare malattie neurodegenerative. “Questo non è il primo studio sull’impatto che le terapie ormonali possono avere sulla riduzione delle malattie neurodegenerative”, ha affermato Roberta Diaz Brinton, direttrice dell’Arizona Center for Innovation in Brain Science e principale autrice della ricerca. “Ma l’aspetto innovativo di questo studio è che fa emergere la possibilità di utilizzare terapie ormonali di precisione nella prevenzione delle malattie neurodegenerative, compreso l’Alzheimer”.

La terapia ormonale sostitutiva

La terapia ormonale è il trattamento considerato più efficace per i sintomi della menopausa, che possono includere vampate di calore, sudorazione notturna, insonnia, aumento di peso e depressione. Durante lo studio, i ricercatori hanno esaminato le richieste di assistenza di quasi 400.000 donne di età pari o superiore a 45 anni in menopausa. In particolare, hanno esaminato gli effetti dei singoli farmaci per la terapia ormonale approvati dalla Food and Drug Administration degli Stati Uniti, inclusi estrogeni e progestinici, e quelli delle terapie per le malattie neurodegenerative. Inoltre, hanno valutato gli impatti sul rischio di sviluppare la malattia del tipo di terapia ormonale, ma anche della via di somministrazione – orale rispetto a quella transcutanea – e la durata.

I risultati dello studio

In questo studio, i ricercatori hanno scoperto che l’uso degli steroidi naturali estradiolo o progesterone ha comportato una maggiore riduzione del rischio rispetto all’uso di ormoni sintetici. Le terapie ormonali orali hanno ridotto il rischio di malattie neurodegenerative, mentre le terapie ormonali somministrate attraverso la pelle hanno ridotto il rischio di sviluppare demenza. Il rischio complessivo è stato ridotto maggiormente nei pazienti di età pari o superiore a 65 anni. Inoltre, l’effetto protettivo della terapia di durata superiore a un anno sull’Alzheimer, sul morbo di Parkinson e sulla demenza è stato maggiore rispetto alla terapia somministrata per meno di un anno. “La riduzione del rischio di Alzheimer, Parkinson e demenza significa che queste malattie condividono un driver comune regolato dagli estrogeni e, se ci sono driver comuni, possono esserci terapie comuni”, ha affermato Brinton, che da oltre 25 anni si occupa di malattie neurodegenerative e dell’invecchiamento del cervello femminile. “La chiave è che la terapia ormonale non è un trattamento, ma mantiene il cervello e l’intero sistema in funzione, portando alla prevenzione. Non sta invertendo la malattia; sta prevenendo la malattia mantenendo il cervello sano”.

Lo studio Menopause

Ma non tutti gli studi concordano sul ruolo protettivo degli ormoni. Per esempio, una ricerca durata 25 anni e appena pubblicata online su ‘Menopause’ ha mostrato che un’esposizione più lunga agli estrogeni endogeni è collegata – in donne anziane cognitivamente normali – a livelli più elevati di biomarcatori liquorali della malattia di Alzheimer. Quindi, come stanno le cose?  “E’ una storia senza fine che ciclicamente ritorna”, spiega Paolo Maria Rossini, ?????. “Già negli anni ’90 era emersa questa osservazione epidemiologica non solo per la terapia ‘sostitutiva’ estro-progestinica assunta per contrastare i sintomi della menopausa, ma anche per alcuni antinfiammatori, incluse alcune formulazioni di steroidi”.

Dalla teoria alla pratica clinica

Il problema è che nonostante queste ripetute segnalazioni, cioè che chi aveva assunto per un certo tempo questo tipo di cure poi sembrava ammalarsi con minore frequenza, quando si è passati ai trials clinici veri e propri le cose sono andate diversamente. “Anche dando questi farmaci a soggetti asintomatici, ma magari con qualche fattore di rischio come la familiarità – spiega Rossini – non si è mai dimostrata superiorità rispetto a placebo nel corso del follow-up, cioè si ammalavano di demenza con la medesima frequenza e gravità di quelli che non assumevano gli ormoni”.

Cautela e ancora ricerca

Ma allora le conclusioni a cui giunge questo nuovo studio come vanno considerate?  “Sino a che non si fa un trial clinico di cura e prevenzione – spiega il neurologo – è difficile fare delle valutazioni oggettive. In questo caso l’utilizzo delle formulazioni più ‘naturali’ (o almeno definite tali dai ricercatori) richiederebbe un trial prospettico verso placebo in un’ampia popolazione con un congruo follow-up di almeno 5 anni. Diversamente non sapremo mai se quanto da loro ipotizzato su dati epidemiologici abbia o meno una concreta ricaduta di cura e di prevenzione nel senso vero del termine”. Insomma,  sulla base degli studi usciti fin’ora ancora non è chiaro se in futuro potremmo prevenire la neurodegenerazione con gli ormoni.  

Ormoni e Alzheimer al maschile

Si può ipotizzare un ruolo degli ormoni anche per gli uomini? “Questo è tutto un altro mondo per nulla esplorato”, risponde Rossini. “Ci sono studi molto ‘pilota’ con piccoli numeri e breve follow-up da cui non è possibile trarre alcuna conclusione seria”.
 



www.repubblica.it 2021-08-04 09:29:01

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