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La scienza scopre come si raggiunge la felicità

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CHISSA’ che cosa c’è oltre il sessantesimo parallelo nord. Chissà cos’hanno da essere felici gli abitanti di una terra che per metà è oltre il circolo polare artico, e dove ai sei mesi di luce perenne si susseguono i restanti sei di ombra e buio.

Eppure qualcosa ci deve essere davvero, visto che per il terzo anno consecutivo la Finlandia è il paese dove ci si reputa i più felici al mondo, e la capitale Helsinki la città dove si vive meglio, come certifica il World Happiness Report, l’analisi che lo United Nations Sustainable Development Solutions Network stila ogni anno in base ai dati del Gallup World Poll.

Le ragioni? Tanto spazio a disposizione (i finlandesi sono cinque milioni su un territorio più ampio di quello italiano), servizi che funzionano, sicurezza. Ma soprattutto, sottolineano gli autori del rapporto, la chiave della felicità è nella fiducia nella comunità di riferimento.

L’Italia

Per questo probabilmente non stupisce la posizione dell’Italia, che dal basso del suo 25esimo posto non è terra di infelici ma neanche di sfrenata allegria. Una mediocrità che non è nemmeno stata scalfita dalla pandemia, se è vero che galleggiamo a metà classifica da diversi anni.

Ma cosa significa, in fondo, essere felici? E soprattutto, in che modo possiamo – individualmente – fare qualche passo verso la vetta? In altre parole, la felicità si può insegnare?

Un gruppo di ricercatori guidati da Nicola de Pisapia, professore del Dipartimento di Psicologia e Scienze cognitive dell’Università di Trento e che comprende psicologi di Sapienza Università di Roma, ha cercato di rispondere a questa domanda mettendo in piedi uno studio su volontari sani per capire se e come si possa imparare a essere felici.

Over 50

A partecipare all’indagine, i cui risultati sono stati pubblicati nelle scorse settimane su Frontiers in Psychology, sono stati una trentina tra uomini e donne (soprattutto donne, a dire la verità) con un’età media superiore ai 50 anni, e con un livello socio-culturale medio-alto. “Ai volontari è stato chiesto di partecipare a un corso della durata di 9 mesi, suddiviso in moduli: sette weekend dal venerdì alla domenica pomeriggio, e due seminari di meditazione di cinque giorni ciascuno”, racconta de Pisapia, tutti svolti all’Istituto Lama Tzong Khapa di Pomaia, in Toscana, dedicato alla cultura tibetana. Un corso laico e non religioso, sottolinea ancora de Pisapia, il cui obiettivo era quello di porsi al crocevia tra la ricerca scientifica occidentale, le radici della cultura antica, greca e latina, e delle filosofie orientali, per affinare gli strumenti che possono condurre alla felicità.

Ma di cosa parliamo esattamente, quando nominiamo questo stato d’animo cui tutta l’umanità in un modo o nell’altro aspira? Quali sono i fattori specifici che caratterizzano questa rara condizione?

Piacere e saggezza

“Felicità non è solo la ricerca delle emozioni positive”, continua il ricercatore. Non è essere allegri, ridere, pensare positivo. È qualcosa di più complesso, che va al di là della ricerca del piacere momentaneo e si pone invece più nell’ambito della saggezza. Una felicità eudaimonica, insomma, più che edonica: quella che è espressione del sé, e non quella immediata che si ricava dalla soddisfazione di un bisogno. “La direzione l’avevano indicata già i pensatori antichi come Pitagora, Platone, Aristotele o gli stoici, che cercavano di fornire strumenti pratici per vivere bene in tempi non facili. Ma anche la filosofia orientale ha molto da dire al riguardo: il buddismo, l’induismo, l’Islam, hanno lavorato molto sul tema. A partire da questa sinergia, abbiamo cercato di capire cosa significasse sentirsi bene mentalmente in un mondo complesso”, aggiunge de Pisapia.

La vita quotidiana

L’idea di base del corso era dunque quella di far scoprire ai volontari come l’unione dell’antica saggezza e delle pratiche spirituali con le scoperte scientifiche della ricerca neuropsicologica possa essere applicata in modo benefico alla vita quotidiana. Un programma, riconosce de Pisapia, ispirato da un libro del Quattordicesimo Dalai Lama Tenzin Gyatso e dello psichiatra americano Howard C. Cutler (L’arte della felicità, Mondadori) basato sul principio per cui la felicità è legata allo sviluppo dell’equilibrio interiore, con un ruolo chiave ricoperto dalle pratiche di meditazione, ma anche alla comprensione della mente e del cervello umani, dei loro limiti e potenzialità, alla luce delle recenti scoperte scientifiche.

Per la parte teorica, dunque, i partecipanti hanno assistito a una serie di presentazioni di neuroscienze (sulla neuroplasticità e i circuiti cerebrali dell’attenzione, stress e ansia, dolore e piacere, emozioni positive e negative, desiderio e dipendenza), affrontando temi di psicologia, storia del pensiero occidentale e filosofia di vita del buddismo. La parte pratica comprendeva una serie di esercizi tratti da diverse tradizioni contemplative, buddiste e occidentali, come la meditazione sul respiro e la meditazione analitica, e la richiesta di tenere un diario quotidiano, un’importante pratica di auto-osservazione per capire in modo analitico cosa accade al sé.

A lezione di felicità

I risultati dello studio, dicono i ricercatori, mostrano che imparare a utilizzare questi strumenti funziona. Certo, non è facile misurare la felicità di un individuo: de Pisapia e i suoi colleghi ci hanno provato utilizzando questionari psicologici in grado di misurare diverse variabili, come lo stress, la rabbia, le emozioni positive e negative, la consapevolezza, la capacità di osservazione, di giudizio, il senso di soddisfazione della vita.

“I questionari sono stati somministrati ai volontari prima e dopo i weekend, e a ridosso dei due laboratori di cinque giorni, per valutarne l’effetto specifico. Ebbene – dice lo studioso – abbiamo notato un grande cambiamento su tutte le misure. Il grado di stress, per esempio, si è ridotto subito, altre variabili, invece, come la capacità di gestire la rabbia, sono calate più lentamente, ma sono calate anch’esse”.

Cala lo stress

I partecipanti allo studio, dunque, si sono scoperti meno stressati, più soddisfatti della loro vita, più consapevoli, più sereni rispetto al giudizio degli altri, più capaci di gestire le emozioni negative. Vuole forse dire che si sono anche scoperti più felici? “Le nostre misure sono state solo qualitative, non quantitative, nel senso che non abbiamo valutato i livelli di cortisolo (il cosiddetto ormone dello stress) o quello che accadeva nel cervello delle persone con la risonanza magnetica, cosa che però vorremmo fare in una fase successiva”, aggiunge de Pisapia. E però, chiedere alle persone come si sentano è probabilmente l’unico modo per capire se siano felici oppure no.

A dire che la felicità si può insegnare c’è anche l’esperienza di Laurie Santos, professoressa di Psicologia e Scienze cognitive all’Università americana di Yale e promotrice del corso di Science of WellBeing. Nel primo semestre le lezioni di scienza della felicità hanno attirato 1200 studenti, un record assoluto nella storia dell’ateneo. Quando poi, causa lockdown, il corso si è spostato online sulla piattaforma Coursera.org, a seguire le lezioni sono state quasi quattro milioni di persone. Una popolarità che ha incuriosito due gruppi di ricerca, che hanno cercato di rispondere alla domanda: ma davvero un corso online gratuito sulla felicità e qualche compito a casa – per esempio coltivare le relazioni sociali, compilare un elenco di gratitudine e applicarsi alla meditazione – aiuta a migliorare il senso di benessere?

Obiettivo salute mentale

La risposta è sì, secondo due nuovi studi che hanno misurato l’impatto psicologico sugli individui che hanno seguito il corso di Santos o un corso simile. Nella prima analisi, pubblicata su PLOS ONE, i ricercatori della Johns Hopkins University e di Yale hanno scoperto che le persone che avevano seguito il corso online Science of Well Being riportavano un maggiore senso di benessere e maggiori benefici per la salute mentale rispetto a quelle iscritte a un corso simile, di semplice introduzione alla psicologia. Il perché va cercato proprio nella parte pratica, di cui il secondo corso era privo.

La maturità

“La teoria è importante, ma non basta. Serve anche l’applicazione”, commenta l’autore dello studio David Yaden, ricercatore presso il Dipartimento di Psichiatria e Scienze comportamentali della Johns Hopkins. Uno studio simile, pubblicato su Health Psychology Open e condotto da ricercatori di Yale e dell’Università di Bristol, ha intervistato gli studenti che avevano seguito il corso di Santos in presenza e quelli che lo avevano seguito online, trovando benefici psicologici simili.

Resta però un dubbio: non sarà che questa consapevolezza, questa accettazione di se stessi, questa serenità interiore rispetto alle emozioni, si raggiunge solo con la maturità? In altre parole, non sarà che la felicità è solo un affare per over 60? “È necessario fornire questi strumenti anche alle nuove generazioni, affinché i ragazzi diventino adulti felici. La capacità di relazione, la gestione delle emozioni, la contemplazione, l’attenzione, sono strumenti importanti per raggiungere la felicità. E il silenzio, soprattutto: i pitagorici stavano in silenzio anche due o tre anni per allenare l’ascolto, e questa è una facoltà poco insegnata ai giovani. Ma il nostro studio – conclude de Pisapia – mostra che è anche importante tornare alla cultura in cui la saggezza ha un ruolo centrale, e dove l’anziano è un punto di riferimento”.

 



www.repubblica.it 2021-08-29 11:00:00

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