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La diplomazia dei vaccini – la Repubblica

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*Alessandro Colombo è Professore di Relazioni Internazionali all’Università di Milano e Responsabile del Programma Relazioni Transatlantiche dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI). Il testo che segue è tratto dalla seconda edizione del Libro Bianco “La ricerca biomedica e il rapporto tra pubblico e privato”, realizzato da Fondazione Fadoi e Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia e promosso da Fondazione Roche.

 

NON c’è niente di storicamente anomalo, naturalmente, nel fatto che una grande emergenza (sanitaria in questo caso, ambientale o economica in altri) operi come una prova e una gara di efficienza: tutta la storia dell’ordine politico-giuridico moderno è scandita dalla pratica e dalla retorica dell’eccezione. Così come non c’è niente di strano se una impresa umanitaria contenga dentro di sé anche motivazioni politiche: quello che vale oggi per la cosiddetta “diplomazia dei vaccini” era già stato vero in passato per tutte le politiche di “aiuto allo sviluppo”, a maggior ragione ogniqualvolta queste sono state dichiaratamente subordinate a qualche condizionalità di natura politica o economica.

Le novità dell’attuale diplomazia dei vaccini vanno cercate, allora, nei suoi protagonisti e ancora di più nel suo disegno geopolitico: tanto che, senza aggiungere in realtà molto all’evoluzione in corso, la diplomazia dei vaccini ha già avuto il potere di riassumere e mettere in mostra alcuni dei cambiamenti più significativi dell’attuale contesto internazionale, oltre che alcuni dei fattori più potenti della sua instabilità.

Il mutamento più superficiale, ma anche quello più appariscente, è il declino della capacità  e della volontà egemonica degli Stati Uniti, nel significato etimologico di disponibilità a  “guidare” la comunità internazionale. A differenza di ciò che era solito avvenire nei primi due decenni dopo la Guerra Fredda – quando gli Stati Uniti preferirono intervenire in prima persona di fronte alle “emergenze” umanitarie in Somalia e nei Balcani così come nell’“emergenza” economica in Messico – anche in questa occasione, come già di fronte alla catastrofe siriana, gli Stati Uniti hanno mantenuto un profilo più basso, di carattere quasi reattivo, che potrà essere solo parzialmente corretto dalla prevedibile rincorsa che connoterà, nei prossimi mesi, la diplomazia dei vaccini dell’amministrazione Biden.

Il secondo mutamento, altrettanto scontato, è l’attivismo delle grandi potenze che avevano già manifestato per tutto l’ultimo decennio maggiore assertività politica e diplomatica: in particolare la Cina, la Russia e l’India. Più che essere l’espressione di una generica scalata alla gerarchia del potere, questo attivismo riflette l’aspirazione a tradurre le rispettive crescite del potere in termini di prestigio. È ciò che connota tutte le potenze in ascesa (o, come nel caso della Russia, in parziale ripresa) quali status seeker: non necessariamente potenze soddisfatte della gerarchia esistente, del potere e del prestigio, ma potenze “a caccia di riconoscimento” (quale quello che perseguono anche in questo caso attraverso la diplomazia dei vaccini – ma a rischio di incorrere, sacrificando la campagna vaccinale interna, in una catastrofe del prestigio quale quella che ha investito l’India).

Il terzo mutamento è meno scontato ma, in prospettiva, più incisivo. Dietro la realtà e la retorica della globalizzazione, il sistema internazionale ha sperimentato nell’ultimo trentennio una crescente scomposizione su base regionale, almeno nel senso che i sistemi regionali sono sempre più diversi tra loro in termini di protagonisti, allineamenti, conflitti e linguaggi del conflitto; la penetrazione delle potenze extraregionali è meno pervasiva e meno efficace che all’epoca della Guerra Fredda; le gerarchie del potere e del prestigio a livello regionale pesano di più che in passato, con la conseguenza di produrre spirali competitive a livello “locale” invece che “globale”. L’attuale diplomazia dei vaccini ha rispecchiato, confermandola, questa tendenza disgregativa. Le grandi potenze in ascesa, infatti, hanno concentrato i propri sforzi nelle rispettive regioni di appartenenza e, in subordine, lungo le direttrici della propria potenziale influenza: la Cina ha procurato i propri vaccini al Pakistan, principale avversario dell’India, a diversi Paesi coinvolti nella Belt and Road Initiative (dai Balcani occidentali all’Africa, al Medio Oriente, all’America Latina), ma ha destinato circa il 60% delle forniture all’Asia sud-orientale (Laos, Myanmar, Cambogia, Vietnam, Thailandia, Malaysia, Singapore, Filippine); l’India si è concentrata a propria volta sui Paesi limitrofi e su quelli affacciati sull’Oceano Indiano (Nepal, Bhutan, Maldive, Seychelles, Sri Lanka, Bangladesh, Bahrain, Oman, Afghanistan e, in competizione con la Cina, Myanmar); la Russia non ha trascurato Medio Oriente e America Latina, ma si è mossa soprattutto nella propria tradizionale area di influenza e nelle aree contese quali i Balcani occidentali (in particolare la Serbia) e l’Europa centro-orientale (in particolare l’Ungheria).

A questo si collega un quarto elemento, che sarebbe sbagliato liquidare come secondario o addirittura marginale. Nel quadro della progressiva inversione del rapporto tra dinamiche globali e dinamiche regionali, è destinato inevitabilmente a crescere anche il ruolo degli attori “minori”, irrilevanti su scala globale ma, appunto, sempre più rilevanti all’interno dei rispettivi contesti regionali. Anche la diplomazia dei vaccini ha confermato questo rinnovato attivismo. Valgano come esempio due casi tanto più significativi in quanto molto diversi tra loro. Il primo è quello degli Emirati Arabi Uniti che, già attivissimi in tutte le crisi mediorientali dell’ultimo decennio, non hanno perso l’occasione di impiegare la diplomazia dei vaccini per rafforzare i propri legami con paesi-chiave quali l’Egitto. L’altro caso, meno scontato perché riferito a un Paese molto meno ricco di risorse, è quello della Serbia. Grazie alle forniture ricevute sia dalla Russia sia dalla Cina, la Serbia non è stata soltanto in grado di svolgere una delle più brillanti campagne vaccinali del continente europeo, ma ha potuto anche condurre una propria diplomazia regionale dei vaccini con Paesi limitrofi quali la Macedonia del Nord, il Montenegro e la Repubblica Srpska.

 

Infine, la pandemia ha messo nuovamente in luce la vulnerabilità geopolitica dell’Europa. È vero, infatti, che l’Unione Europea ha fornito un contributo non trascurabile allo sforzo internazionale di contenimento della pandemia, risultando a lungo il principale contributore del programma COVAX, e considerando che già a giugno 2021 aveva esportato oltre 160 milioni di dosi di vaccino in 90 Paesi. Ma questo non fa che rendere ancora più significativo il fatto che i benefici politici e reputazionali di questo sforzo siano risultati trascurabili, a maggior ragione se paragonati a quelli ottenuti dai “campioni” della diplomazia dei vaccini (Cina e Russia in primis) persino in aree di interesse dell’Unione Europea quali i Balcani occidentali.

Questo ritardo riflette tutte le principali fragilità della condizione attuale dell’Europa. Intanto, e prima di tutto, il suo apparentemente inarrestabile arretramento nella gerarchia del potere e del prestigio internazionale, che completa e porta all’estremo quella che merita di essere considerata la vicenda fondamentale della storia delle relazioni internazionali del Novecento: la fine della centralità europea. Fino alla fine della Guerra Fredda, questa vicenda non poteva ancora dirsi conclusa. È vero, infatti, che il ruolo dell’Europa quale centro di irraggiamento globale (di Istituzioni così come di conflitti), gravemente incrinato dopo la Prima Guerra Mondiale, era già venuto meno all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, con la formazione del sistema internazionale bipolare e la divisione stessa del continente in due sfere di influenza il cui epicentro cadeva, almeno in parte, al di fuori di esso. Ma questo non toglie che, durante la Guerra Fredda, l’Europa rimaneva pur sempre il fronte principale dello scontro, cioè il luogo nel quale si sarebbe combattuta, in caso di guerra, la battaglia decisiva e nel quale, nel frattempo, non se ne poteva combattere alcuna. Grazie a ciò, essa poteva continuare a percepirsi e a essere percepita come uno spazio separato e, sebbene non più come protagonista ma come posta in gioco, più importante degli altri. Con la fine del bipolarismo, anche questo residuo di centralità è venuto irresistibilmente (sebbene lentamente) meno. Nell’attuale contesto internazionale, l’Europa si trova in una posizione storicamente inedita, alla quale fatica ad adattarsi sia politicamente sia culturalmente: l’Europa non domina né è dominata, non è isolata né è in grado di controllare il mondo. Per la prima volta nella storia l’Europa è una regione qualunque di un sistema internazionale globale: quando, prima dell’espansione europea, essa era solo una fra le tante regioni del mondo, il mondo non era ancora integrato. Ora il globo è uno solo e l’Europa non ne costituisce più il centro, anzi sembra non reggere il passo con gli altri potenziali centri.

 

A questo arretramento si mischia la diminuzione della coesione interna dell’Unione, che riflette non soltanto una differenza soggettiva di princìpi e preferenze politiche (quali quelle comunemente rimproverate ai Paesi di Visegrad) ma anche, e soprattutto, quella oggettiva delle rispettive collocazioni geopolitiche. Il peso di queste ultime non ha fatto che crescere nell’ultimo trentennio. Fino al 1989, grazie all’onnipresenza della minaccia sovietica, i confini di tutti gli alleati europei e atlantici potevano essere considerati come il prolungamento dello stesso confine. Nell’attuale sistema internazionale, al contrario, ciascun confine è tornato a essere orientato verso la propria area d’appartenenza per respingere e, specularmente, attrarre sempre nuovi e diversi rischi. La comunanza prospettica in virtù della quale, in passato, i Paesi membri potevano vedere o pensare di vedere lo stesso paesaggio strategico, ha ceduto il passo a una situazione nella quale non è più detto che tutti i Paesi membri abbiano le stesse priorità e percepiscano le stesse minacce e, quindi, non è più detto (anzi è altamente improbabile) che tutti vogliano investire risorse nelle stesse direzioni. Questa divaricazione ha pesato anche sulla risposta collettiva alla pandemia. Mentre Paesi quali la Cina e la Russia hanno seguito nella propria diplomazia dei vaccini una strategia e un codice geopolitico univoci, l’Unione Europea ha risentito come di consueto delle diverse priorità dei propri membri: la Francia più interessata al continente africano, l’Italia alla sponda sud del Mediterraneo, i Paesi dell’Europa centro-orientale all’Ucraina e alla Russia, Ungheria e Romania ai Balcani occidentali.

Infine, la marginalità geopolitica dell’Europa rischia di essere paradossalmente confermata dalla prospettiva di rilancio del legame transatlantico promosso dalla nuova amministrazione Biden. Da un lato, infatti, la nuova offerta di acquisto dell’egemonia americana ha il vantaggio di allontanare lo spettro dell’abbandono periodicamente agitato dalla precedente amministrazione Trump, restituendo all’Europa il ruolo di interlocutore e partner privilegiato degli Stati Uniti. Ma, dall’altro lato, la tentazione del bandwagoning alla leadership degli Stati Uniti ha il triplice svantaggio di:

 

• intralciare sul nascere la flessibilità diplomatica che sarebbe più consona a un contesto multipolare quale quello a cui la stessa Unione Europea dichiara di aspirare;

 

• intrappolarla, al contrario, in una competizione globale con la Cina, anche a costo (e un costo non trascurabile) di estendere gli impegni anche militari dei Paesi europei fino alla regione indo-pacifica;

 

• sfumare ulteriormente qualunque traccia di un’identità politica e strategica dell’Unione, già a partire dalle prossime tappe della diplomazia dei vaccini, quando gli sforzi europei rischieranno di finire diluiti in una più ampia e vigorosa diplomazia “occidentale” a guida americana.



www.repubblica.it 2022-01-04 16:09:41

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