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Leucemia mieloide acuta: mancano cure domiciliari e supporto psicologico

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“Sono passati 18 anni dalla mia diagnosi. 18 anni che io definisco una tempesta perfetta, perché nello sconvolgimento generale ho sperimentato quello che di buono e positivo c’è nel percorso di assistenza”. Descrive così quell’evento che le ha sconvolto l’esistenza Emanuela Massa, che quando aveva 28 anni ha scoperto di avere una leucemia mieloide acuta, una forma di tumore del sangue che fino a qualche anno prima le avrebbe concesso solo un paio di mesi di vita.  Adesso – superata la leucemia e poi anche un cancro al seno – racconta la sua esperienza e testimonia in qualità di paziente e di volontaria dell’Ail (Associazione italiana contro leucemie, linfomi e mieloma) i punti di forza del complesso percorso oncoematologico e i bisogni ancora insoddisfatti. L’occasione è la presentazione dell’indagine “Leucemia Mieloide Acuta. Un viaggio da fare insieme” condotta da Doxapharma e promossa da Ail. Un sondaggio che ha coinvolto pazienti, caregiver, volontari e medici ematologi, e da cui è emerso quanto ancora si possa lavorare per migliorare l’assistenza e la qualità di vita dei pazienti, a partire dalla comunicazione medico-paziente fino alla necessità di implementare le cure domiciliari e le forme di supporto psicologico.

 

Leucemia mieloide acuta, una diagnosi che fa ancora paura

La leucemia mieloide acuta è, per usare una definizione un po’ datata, un tumore maligno del sangue, dovuto a mutazioni genetiche che alterano la proliferazione delle cellule staminali emopoietiche del midollo osseo e il differenziamento delle cellule del sangue”, spiega Alessandro Rambaldi, Professore di Ematologia, Dipartimento di Oncologia e Ematologia, Università di Milano e Azienda Socio-Sanitaria Territoriale Papa Giovanni XXIII di Bergamo. “Il midollo dei pazienti perde la capacità di produrre globuli rossi, globuli bianchi e piastrine, e pertanto i pazienti diventano anemici, molto suscettibili a infezioni ed emorragie”. È una malattia aggressiva che in molti casi (ma non tutti) esordisce con sintomi non chiarissimi, ascrivibili anche a altri malesseri di minor gravità, ma che nel giro di poco tempo si acutizzano al punto che in un paio di settimane oltre l’80% dei pazienti viene indirizzato allo specialista ematologo per la conferma della diagnosi.

 

Una diagnosi che tutti gli attori coinvolti nell’indagine confermano essere un momento molto complesso, anche dal punto di vista della comunicazione. Per la maggior parte dei pazienti è una notizia difficile da accettare, che fa ancora molta paura per l’aggressività dei trattamenti e la scarsità delle opzioni terapeutiche. Una negatività condivisa dai medici, che però vedono anche le opportunità offerte dalle nuove molecole che colpiscono specifici target cellulari e che possono dare nuove prospettive. “Alcuni di questi farmaci possono essere utilizzati in associazione alla terapia convenzionale, altri possono essere utilizzati in particolari gruppi di pazienti, per esempio nei cosiddetti “unfit” cioè nei soggetti che non hanno le caratteristiche per poter tollerare una chemioterapia convenzionale; altri ancora per pazienti che hanno perso la risposta al primo trattamento o per mantenere una risposta dopo il trapianto di cellule staminali”, commenta Alessandro Maria Vannucchi, Professore Ordinario di Ematologia, Direttore SODc Ematologia Azienda Ospedaliera Careggi e Direttore Scuola di Specializzazione in Ematologia, Università di Firenze. “Questa serie di nuove molecole sta modificando il panorama terapeutico attuale della leucemia mieloide acuta, assicurando significativi miglioramenti in termini di sopravvivenza e/o di assenza di recidiva della malattia, anche se nessuno di questi può da solo portare a guarigione la malattia, per la quale la migliore speranza è il trapianto di midollo”.

 

Multidisciplinarietà: fondamentale, ma va integrata

Dal sondaggio promosso da Ail emerge anche una complessiva soddisfazione per la presa in carico multidisciplinare del paziente dopo la diagnosi. Nella maggioranza dei casi (80%) il paziente è seguito da un team multidisciplinare composto da ematologo, infermiere, psicologo e nutrizionista – figure fondamentali, così come importantissima è considerata la loro sinergia, anche se l’auspicio è di ampliare le competenze includendo in modo stabile la professionalità dell’infettivologo e del palliativista. “Abbiamo dati di letteratura che confermano come il team multidisciplinare abbia ripercussioni positive addirittura sulla sopravvivenza e sulla migliore qualità di vita del paziente”, sottolinea Fabio Efficace, Responsabile Studi Qualità di Vita, Fondazione Gimema per la promozione della ricerca scientifica in ematologia. “La comunicazione è anche un aspetto cruciale così come la rapidità con cui vengono condivisi i dati di laboratorio, le condizioni cliniche del paziente e su come accetta e affronta la malattia”.

 

Obiettivo: migliorare la qualità della vita

“Una leucemia acuta è un tumore che non si vede ma si sente”, racconta ancora Emanuela Massa. “Avendo avuto anche una lesione mammaria posso dire che sono due malattie completamente diverse: una lascia segni sul corpo, è identificabile, l’altra è nel sangue e il sangue è dappertutto”. E così la leucemia mieloide acuta coinvolge ogni aspetto della vita del paziente e dei caregiver, che ne vengono completamente assorbiti. Per questo implementare la qualità di vita dei pazienti, al momento valutata da tutti gli intervistati con punteggi insufficienti, è una priorità. In questo senso, la proposta più apprezzata riguarda servizi di assistenza domiciliare che siano in grado di dare continuità alla gestione ospedaliera del paziente, per un percorso di cura strutturato a 360 gradi nella relazione tra cure/gestione ospedaliera e domiciliare del paziente con leucemia mieloide acuta. A questo va sicuramente affiancato un supporto psicologico che sia in grado di aiutare pazienti e caregiver nella gestione quotidiana della patologia e del suo impatto sulla vita quotidiana. Avere la possibilità di curarsi a domicilio, in un contesto familiare, o di potersi appoggiare a centri piccoli ma vicini a casa invece che recarsi per lunghi periodi nei grandi ospedali di riferimento (spesso affollati) hanno un impatto importante sulla percezione della malattia, conclude Massa. “Il problema è che questo tipo di servizi molto spesso non è integrato in modo strutturato nelle aziende ospedaliere, ma organizzato in modo, per così dire, ‘casalingo’ da realtà associative come Ail”, ribadisce Sergio Amadori, professore onorario di ematologia e consigliere nazionale Ail. “E dove Ail non arriva, che succede? I risultati di questa indagine ci indicano una strada precisa e ci spronano a continuare a bussare alla porta delle istituzioni. Nel Pnrr si parla di investimenti nella medicina di territorio e nel rinforzo al personale ospedaliero: l’aspettativa è alta, ma alle parole devono seguire fatti”.



www.repubblica.it 2022-04-28 18:04:39

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