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Giornata mondiale contro il tumore dell’ovaio: serve più prevenzione nelle donne a ri…

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OTTO diagnosi di tumore dell’ovaio su 10 sono in fase avanzata. In questi casi, la sopravvivenza a 5 anni è del 30-40%. Percentuali che si invertono se la malattia è scoperta in tempo: allo stadio iniziale, infatti, la sopravvivenza raggiunge il 90%. L’intervento precoce è quindi fondamentale, ma questa neoplasia non presenta sintomi chiari e non c’è screening. Ecco uno dei motivi per cui la Giornata mondiale contro il tumore ovarico, che si celebra l’8 maggio, è tanto importante: bisogna aumentare il livello di consapevolezza di donne e medici. Lo ricorda lo slogan della World Ovarian Cancer Coalition scelto per la campagna di quest’anno: No woman left behind (Nessuna donna sia lasciata indietro). Ne parliamo con tre fra i più importanti esperti di tumore ovarico a livello internazionale: Nicoletta Colombo (Direttore del Programma di Ginecologia Oncologica dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano e Professore Associato all’Università Milano-Bicocca), Domenica Lorusso (Professore Associato di Ostetricia e Ginecologia, Responsabile UOSD Programmazione Ricerca Clinica della Fondazione Policlinico Universitario A.Gemelli IRCCS di Roma) e Sandro Pignata (Direttore Oncologia Uro-Ginecologica dell’Istituto Nazionale Tumori IRCCS Fondazione “Pascale” di Napoli).

Prof.ssa Colombo, quali sono i principali sintomi del tumore dell’ovaio?
“Spesso la malattia in fase iniziale non dà sintomi, poiché il tumore può trovare ‘spazio’ nell’addome e non premere su nessun organo vicino. Questo, purtroppo, è il motivo principale per cui la neoplasia nel 75-80% dei casi è diagnosticata in fase già avanzata. Quando il tumore cresce, può provocare disturbi aspecifici, come dolore o gonfiore addominale, malessere, aumento di volume dell’addome. Se si è diffuso ad altri organi, la sintomatologia può essere legata all’organo colpito. La mancata consapevolezza troppo spesso porta le donne a sottovalutare i sintomi iniziali e ad arrivare alla diagnosi quando la malattia si è già diffusa ad altri organi. Sono poche le strategie efficaci per prevenire la malattia. Fra i fattori protettivi ci sono la multiparità, l’allattamento al seno e un prolungato impiego di contraccettivi orali. In particolare, donne con pregresse gravidanze multiple presentano una riduzione del rischio di circa il 30% rispetto a coloro che non hanno partorito. Un’indagine ha dimostrato che l’uso prolungato di anticoncezionali riduce il rischio di incidenza di tumore ovarico nella popolazione generale, in particolare nelle donne portatrici di mutazione dei geni BRCA. Non esistono al momento esami di screening, sebbene siano stati condotti molti studi al riguardo. In genere, è raccomandata una visita ginecologica e l’ecografia transvaginale annuali, ma questo non si traduce purtroppo, nella maggior parte dei casi, in un anticipo della diagnosi”.

Prof.ssa Lorusso, è possibile migliorare le attuali strategie di prevenzione?
“Circa il 20% delle neoplasie ovariche è ereditario, cioè causato da specifiche mutazioni genetiche. BRCA1 e BRCA2 sono due geni che producono proteine in grado di bloccare la proliferazione incontrollata di cellule tumorali. Queste proteine partecipano a meccanismi di riparazione del Dna, garantendo l’integrità dell’intero patrimonio genetico. Quando sono mutate, cioè difettose, il Dna non viene riparato correttamente e si determina un accumulo di alterazioni genetiche che aumenta il rischio di alcuni tumori. Una mutazione di BRCA1 e BRCA2, ereditata dalla madre o dal padre, determina quindi una predisposizione a sviluppare i tumori dell’ovaio, della mammella e della prostata più frequentemente rispetto alla popolazione generale. Se vi sia o meno una mutazione BRCA va capito, con un test molecolare, al momento stesso della diagnosi: questa informazione, infatti, aiuta a definire il corretto percorso di cura fin dalla prima linea di trattamento. Ma non solo: il riscontro della mutazione BRCA nelle pazienti innesca un conseguente effetto ‘a cascata’, perché permette ai familiari l’accesso alla consulenza oncogenetica in centri specializzati e al test BRCA preventivo, finalizzato a verificare la presenza o meno della mutazione genetica. Nei familiari che presentano la mutazione, devono essere avviati programmi di riduzione del rischio. Negli Stati Uniti, dove il test BRCA è universale per tutte le pazienti colpite da tumore ovarico già da alcuni anni, gli epidemiologi hanno stimato che le strategie di riduzione del rischio mediche o chirurgiche messe in atto sulle parenti sane positive al test preventivo, possano portare ad una riduzione dell’incidenza del carcinoma ovarico del 40% in 10 anni. Questo risultato, in un tumore che ancora oggi non riconosce metodiche di screening e di prevenzione semplici ed efficaci, è di straordinaria importanza”.

Prof. Pignata, quali sono le strategie di riduzione del rischio nelle donne sane con mutazione BRCA?
“Si va dalla sorveglianza intensiva alla chirurgia profilattica. Da un lato, nelle donne che desiderano avere figli, sono raccomandati un controllo semestrale di un marcatore tumorale, CA-125, insieme all’ecografia ginecologica transvaginale. Dall’altro lato, l’annessiectomia profilattica bilaterale, cioè l’asportazione chirurgica di tube ed ovaie, può prevenire la quasi totalità dei tumori ovarici su base genetico-ereditaria. La chirurgia profilattica è oggi consigliata nelle donne con mutazione genetica che hanno già avuto gravidanze o che siano in menopausa. Sono fondamentali la condivisione della scelta e il supporto psicologico, soprattutto nelle donne ancora in età fertile. Nell’assumere queste decisioni, va quindi considerata l’età, il tipo di mutazione e la pianificazione di eventuali gravidanze. Le linee guida suggeriscono di procedere alla annessiectomia bilaterale tra i 35 e i 40 anni per le donne portatrici di mutazione BRCA1 e tra i 40 e i 45 anni nei casi di mutazione BRCA2, una volta esaudito il desiderio di maternità. L’asportazione chirurgica di tube ed ovaie rende poi impossibile la gravidanza con i propri ovociti, a meno che non si sia provveduto in anticipo al loro congelamento. È quindi auspicabile, per tutte le portatrici di mutazione BRCA, un approfondito counselling riproduttivo già a partire dai 30 anni. Va sottolineato che una gravidanza e l’allattamento prima dell’eventuale chirurgia profilattica non aumentano il rischio di tumore nelle persone sane con la mutazione genetica, anzi lo riducono”.

 

Prof.ssa Lorusso, qual è il ruolo della chirurgia e quali sono le opzioni disponibili nella malattia avanzata?  
Nelle pazienti con tumore in stadio iniziale la chirurgia è curativa nel 70-90% dei casi, ma, quando ci sono all’esame istologico fattori di rischio per una recidiva di malattia, viene prescritta anche una chemioterapia adiuvante, cioè successiva all’intervento. Nella malattia avanzata, è indicato un approccio chirurgico quanto più possibile radicale mirato ad asportare tutta la malattia visibile, seguito da chemioterapia. In alcuni casi, quando la malattia è molto avanzata, o quando la paziente non è in condizioni cliniche per sopportare un intervento che spesso dura 4-5 ore, si preferisce far precedere l’intervento da alcuni cicli di chemioterapia neoadiuvante (di solito tre), per ridurre il tumore e rendere la successiva chirurgia meno complessa. Il 70-80% delle pazienti affette da neoplasia ovarica in stadio avanzato presenta una recidiva entro i primi tre anni dal termine del trattamento. L’evoluzione delle terapie mediche ha consentito di migliorare significativamente le possibilità di cura di queste pazienti investendo sulle terapie di mantenimento, che somministrate al termine della chemioterapia ci aiutano a tenere la malattia sotto controllo più a lungo. Da un lato, vi sono i farmaci antiangiogenici che impediscono al tumore di sviluppare i vasi sanguigni che ne permetterebbero la crescita. Dall’altro lato, sono disponibili gli inibitori di PARP, efficaci sia nelle pazienti che presentano la mutazione dei geni BRCA che in quelle che ne sono prive. L’utilizzo di questi farmaci nel trattamento sia della malattia di nuova diagnosi che nella recidiva di carcinoma ovarico ha prolungato in modo significativo l’intervallo libero da progressione della malattia. Queste molecole, inoltre, hanno il grande vantaggio di essere disponibili in formulazione orale e sono ben tollerate.

Prof.ssa Colombo, quali sono le novità più importanti nel trattamento della malattia avanzata?
“L’elevata eterogeneità biologica di questo tumore ha ritardato, di molti anni rispetto alle altre neoplasie, l’introduzione di terapie mirate. Fino a meno di un decennio fa la chemioterapia era l’unica opzione. Oggi, negli stadi avanzati, sia nella prima linea di trattamento che nella recidiva sono disponibili farmaci a bersaglio molecolare, utilizzati in associazione alla chemioterapia e/o come mantenimento: il bevacizumab, anticorpo monoclonale che interferisce con la neo-angiogenesi tumorale, e i PARP inibitori, di cui olaparib rappresenta il capostipite. Recentemente, anche la combinazione di questi due farmaci ha dimostrato di essere efficace nel prolungare la sopravvivenza libera da progressione di malattia, ottenendo l’approvazione della rimborsabilità in Italia, da parte dell’Agenzia Italiana del Farmaco, come trattamento di mantenimento nelle pazienti che rispondono alla chemioterapia di prima linea, in particolari nei sottogruppi di donne con tumori caratterizzati da un difetto di ricombinazione omologa (HRD), ossia un difetto nel meccanismo di riparazione della doppia elica del Dna presente in circa la metà di tutti i casi. La terapia di mantenimento con gli inibitori di PARP, infatti, è particolarmente efficace nelle pazienti con questo profilo molecolare, al punto da ritardare la recidiva di oltre 3 anni in prima linea.

Prof. Pignata, quanto è importante l’approccio multidisciplinare nella lotta contro il tumore dell’ovaio?
“In Italia siamo all’avanguardia nella gestione di queste pazienti, ma va migliorata la comunicazione tra ginecologo e oncologo e le altre figure chiave coinvolte. Il tumore ovarico è una patologia che, più di altre, necessita di un approccio multidisciplinare. È fondamentale essere in grado di offrire alle pazienti un piano strategico d’intervento, concordato tra queste due figure, che sono quelle coinvolte maggiormente. Il lavoro del ginecologo è determinante per la sensibilizzazione della donna e per individuare tempestivamente la malattia, così come nella programmazione dell’intervento chirurgico. Una buona chirurgia primaria, che non lasci residuo di tumore, permette alla chemioterapia successiva, gestita dall’oncologo, di mantenere la paziente libera dal cancro per molti anni. Il segreto della buona gestione è quindi una presa in carico precoce da parte di un’équipe multidisciplinare, composta anche da altre figure, come l’anatomopatologo, il radioterapista, il chirurgo. Dobbiamo lavorare tutti ancor di più fianco a fianco, come già accade per altri tumori”.



www.repubblica.it 2022-05-06 11:46:51

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