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“Ho vinto una biopsia”, storia di un’avventura oncologica

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È racconto e vademecum. È serio (il tema lo è, il cancro della mammella lo è) ma sa anche far sorridere, a partire dal titolo, benché si sorrida amaro. Ho vinto una biopsia” (Maria Magherita Bulgarini editore, 14 pp, 16 euro), il volume che ha scritto Minnie Luongo, giornalista medico-scientifica, molti saggi alle spalle e 30 anni di collaborazioni con il Corriere della Sera, è così. È una cosa e l’altra: realizzato con il contributo di un’altra giornalista scientifica, Paola Emilia Cicerone, e la prefazione di Paolo Veronesi, direttore del Programma Senologia dell’Istituto Europeo di Oncologia – è infatti un libro “doppio”.

 
Due libri in uno

È sì la storia narrata in prima persona (la prima parte del volume) di una esperienza di malattia – e di amicizie (tante), di gocce di valium (un po’) e di viaggi (un paio), ma è anche un manuale di volo per affrontare un tumore al seno e non sentirsi impreparati, come recita d’altronde il sottotitolo. Ovvero un testo di servizio, uno strumento utile per tutte le donne che si trovassero a dover affrontare la stessa situazione di Minnie. E visto che è anche un manuale, dentro ci sono schede informative su tecniche e farmaci, e ci sono consigli: apprendiamo per esempio cosa mettere in valigia prima di un ricovero, cos’è e come farsi una puntura di eparina, come trattare le ferite chirurgiche dopo le dimissioni dall’ospedale. Poi ci sono anche (la seconda parte del volume) interviste agli specialisti del cancro della mammella: dall’oncologo al chirurgo, dal genetista all’infermiera, dal radiologo alla psiconcologa. E, infine (siamo alla terza parte) ci sono recapiti e mission delle più attive associazioni di pazienti che si occupano di oncologia attive nella penisola.

Il libro è “doppio”, ancora, perché la sua stessa autrice è due cose insieme: è paziente, e quindi persona vulnerabile per definizione. Ma è anche giornalista: cioè una che per mestiere osserva e domanda e non fa sconti. E che però, per una volta, non è lei a osservare, ma è lei ad essere osservata. Qualche volta con parecchia distrazione. Tutto parte dalla telefonata della signorina che le dice di tornare al centro diagnostico dopo una mammografia che evidentemente non era perfetta (ansia e impazienza di sapere) fino, e oltre, al “lei signora mi ha vinto una biopsia” riportato del titolo (che non è una battuta, ma sono le parole pronunciate davvero da un medico).

Non tutti i medici ascoltano

Il libro si arricchisce anche delle riflessioni, delle considerazioni, dei commenti e degli spunti di Paola Emilia Cicerone, esperta di relazione medico-paziente, e le sue incursioni nella narrazione stimolano il lettore a riflettere su quanto sia importante (e oggi ancora raro) investire su una comunicazione corretta tra chi cura e chi è nella necessità di essere curato. E su quanto sia ancora difficile, o comunque non scontato, per il paziente ottenere ascolto e attenzione, pure quando ci si rivolge a una struttura di eccellenza. “Una cosa è scrivere per più di trent’anni di medicina per il maggior quotidiano nazionale e aver pubblicato più di una decina di saggi sul tema – si legge nella scheda che accompagna il volume – un’altra è trovarsi improvvisamente dalla parte della paziente. D’un tratto [l’autrice] si rende conto che tutte le nozioni dispensate non sono sufficienti quando ci si trova davanti ad alcuni – non tutti, per fortuna – medici che non spiegano, non ascoltano, e soprattutto mancano di empatia”.

Comunicazione: un problema della medicina del terzo millennio

La difficoltà di dialogo medico-paziente – scrive Paolo Veronesi nella prefazione – è uno dei grandi problemi della medicina del terzo millennio. Il che sembra un paradosso: non facciamo altro che comunicare dappertutto, noi tutti come anche i medici. Ma a ben guardare un paradosso forse non lo è, perché una cosa è comunicare con trasparenza competenza e correttezza, cosa che molti medici fanno su tanti giornali o siti web, altra cosa è riuscire ad ascoltare e saper parlare “all’interno di un rapporto a due, in cui una persona, il paziente, affida ad un’altra, il medico, ciò che ha di più prezioso, la salute e spesso la vita”.

Ecco, questa cosa qui non è così semplice, come la storia di Minnie attesta e in qualche modo anche denuncia. Nella storia di Minnie ci sono bravi medici, ma anche professionisti distratti, incapaci di trovare le parole giuste, sanitari sbrigativi, che sbagliano linguaggio e modi (che non sono forma mai, tanto meno quando l’interlocutore teme per la sua salute). Linguaggio e modi che vanno dall’eccessivamente distaccato al davvero troppo familiare. Eppure, da anni si discute della questione comunicazione medico-paziente e c’è una letteratura sul tema. E ci sono protocolli validati che indicano, per esempio, in che modo comunicare le diagnosi, come esemplifica Cicerone.

Gli ostacoli: tempo parole ed empatia

I principali ostacoli da superare per migliorare questa situazione? il Veronesi ne elenca tre: il tempo prima di tutto, poi le parole. “Raramente il medico conosce così profondamente il paziente da poter adattare le sue parole alla persona che ha di fronte. Quindi quando parla con il suo paziente, il medico più illuminato tenta di trovare un equilibrio fra la correttezza e la chiarezza delle informazioni, essendo preciso, ma non astruso, per poter trasmettere speranza, senza mai illudere. La ricerca del linguaggio giusto per ogni malato è un grande impegno, che non tutti si assumono, e che ci pone inesorabilmente di fronte al terzo ostacolo: l’empatia”. L’empatia è la capacità di immedesimarsi nell’altro, è fatta di parole ma anche di gesti e sguardi, ed è il cemento del rapporto medico-paziente. Si può coltivare e sviluppare, ma è in gran parte innata, dice Veronesi. Ha ragione, il che significa che la parte restante, almeno quella, si può imparare.



www.repubblica.it 2022-05-23 11:37:00

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