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Tumore del colon: accerchiarlo per sconfiggerlo

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Una cura ritagliata sulla persona. È la promessa dell’oncologia personalizzata che trova le sue prime conferme anche nel tumore del colon retto. Che ci sia spazio per una cura diversa a seconda del tipo di malattia lo abbiamo imparato con il cancro del seno, in alcuni casi veramente difficile da aggredire, in altri poco aggressivo e quindi gestibile. Iniziamo a vederlo nel polmone, dove le caratteristiche molecolari indirizzano le terapie. E ce lo conferma appunto il tumore del colon retto, nel quale giocano un ruolo importante non solo le mutazioni presenti o no, ma anche la localizzazione anatomica del tumore primitivo. Ecco perché le nuove e sempre personalizzate strategie di trattamento sono state fra i protagonisti del congresso dell’American Society of Clinical Oncology che si è appena concluso a Chicago. 

D’altronde se è vero che, grazie allo screening, si riescono a individuare tumori allo stadio iniziale che hanno maggiori probabilità di essere curati, come dimostra l’aumento di sopravvivenza; è vero anche che il tumore del colon retto rimane ancora la seconda neoplasia più frequente nella popolazione italiana dopo quella della mammella e che in circa il 20% dei casi viene diagnosticata quando è già in fase avanzata. 

Selezionare bene i pazienti

Molti pazienti quindi, e spesso già con una malattia grave. Ma anche in questo caso, se si selezionano con cura i diversi sottotipi di tumore, è possibile somministrare terapie efficaci. Prima di tutto dividendo chi ha un tumore primitivo nella parte sinistra del colon da quelli che lo hanno nella parte destra.

“Una differenza importante perché sappiamo che a seconda della sede possiamo usare dei farmaci e non altri. Per esempio, a destra è inutile usare le molecole anti EGFR, dobbiamo invece usare una tripletta di chemioterapici aggressiva e il bevacizumab”, spiega Chiara Cremolini, associata di Oncologia medica all’Università di Pisa, che a Chicago presenta uno studio indipendente proprio sulle diverse strategie da usare a seconda delle caratteristiche del tumore. Risultati validi per una buona fetta dei malati metastatici, circa un terzo: quelli che non hanno né la mutazione di Braf né quella di Ras, né hanno la cosiddetta instabilità dei satelliti.

Lo studio Triplete, promosso dalla fondazione GONO, un gruppo cooperativo nato proprio per promuovere la ricerca non profit, ha dimostrato che nei tumori che nascono a sinistra, al contrario di quelli che si sviluppano a destra, la strategia migliore è quella di usare un farmaco che colpisce il bersaglio EGFR con un chemio più leggera. “In particolare abbiamo confrontato la tripletta di chemio più bevacizumab alla doppietta di chemio più panitumumab e visto che intensificare la terapia non porta a migliori risultati”, spiega Cremolini.

Quello che si chiama un risultato negativo – lo studio non ha dimostrato l’ipotesi di partenza – che in realtà una conferma che la selezione attenta dei pazienti permette di evitare una chemioterapia aggressiva con tutto il suo carico di effetti collaterali. Un altro modo per migliorare la qualità di vita senza compromettere l’efficacia delle cure è quella di diradare la somministrazione della chemio, come ha dimostrato uno studio coordinato dall’Istituto dei Tumori di Napoli.

Novità per i pazienti mutati

Sono un piccola fetta dei malati metastatici, ma le loro caratteristiche li rendono suscettibili di essere curati con farmaci che colpiscono le mutazioni. Per esempio, i tumori in cui a essere mutato è il gene Ras, che rappresentano il 5% dei casi, possono essere curati con target therapy: in particolare la mutazione G12C si è dimostrata al centro di diversi studi presentati a Chicago.

“Questo ci dà speranza: a lungo abbiamo pensato che non fosse possibile colpire Ras, ma questi risultati dimostrano che si può e in futuro spero potremo farlo anche per altre mutazioni”, sottolinea Cremolini. Nel futuro dei tumori Braf mutati, che sono l’8-10%, ci sarà invece l’uso sempre più precoce della terapia bersaglio che oggi viene usata solo in seconda linea. 

I casi instabili

Un altro piccolo gruppo di pazienti – pari al 5% – è quello che presenta la cosiddetta instabilità dei microsatelliti che cioè ha un deficit di funzionalità del sistema di riparazione del Dna. Ebbene per questi pazienti l’immunoterapia dà un beneficio straordinario, che in alcuni casi può portare alla guarigione, come è stato riportato in uno studio presentato al congresso. Un risultato che i ricercatori vorrebbero estendere il più possibile anche ad altri pazienti. Ecco quindi il senso di alcuni studi, sempre condotti in Italia, che hanno cercato di capire se ci sono e quali sono i segnali che ci potrebbero far capire quali tumori “stabili” sono più suscettibili all’immunoterapia.

A Chicago Angela Damato, dell’Azienda USL-IRCCS Reggio Emilia, ha presentato i risultati dello studio Nivacor che dimostra come si si aggiunge a un ciclo di chemio aggressiva l’immunoterapico nivolumab si registra una qualche attività anche nei tumori che non presentano instabilità.

Nella stessa direzione una ricerca pubblicata due settimane fa su Lancet Oncology dal gruppo di Cremolini che ha usato un altro immunoterapico, atezolizumab, dimostrando non solo un segnale di attività negli “stabili” ma individuando anche un biomarcatore. “I tumori più caldi, in cui il microambiente è ricco di linfociti Cd8 e cellule PD L1 positive, sono quelli in cui la chemioterapia funziona nell’attivare il sistema immunitario che quindi sono più suscettibili alla somministrazione dell’immunoterapico”, conclude Cremolini. Non resta che condurre uno studio per dimostrare proprio questo, selezionando i pazienti che esprimono molto biomarcatore e registrando l’attività dell’immunoterapia anche se sono stabili. 



www.repubblica.it 2022-06-07 13:38:10

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