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Alzheimer, la ricerca non può fermarsi

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La ricerca di un trattamento efficace contro la malattia di Alzheimer non è ancora arrivata a una svolta. Non sono infatti positivi i risultati che arrivano dallo studio Alzheimer’s Prevention Initiative (API) Autosomal Dominant Alzheimer’s Disease (ADAD) Colombia Trial. Il farmaco sperimentale crenezumab non ha rallentato o prevenuto il declino cognitivo nelle persone geneticamente predisposte allo sviluppo della malattia. Ma non si tratta di una battuta d’arresto alla ricerca contro l’Alzheimer. Né della fine dell’ipotesi della beta-amiloide come motore della malattia.

Colpire la beta-amiloide

Crenezumab è un farmaco sperimentale, tecnicamente un anticorpo monoclonale diretto contro gli oligomeri della beta-amiloide, la proteina che costituisce le omonime placche, ritenute una delle cause della malattia. Le placche di beta-amiloide, infatti, si accumulano nel cervello danneggiando i neuroni. Crenezumab non è il solo farmaco sviluppato per prendere di mira la beta-amiloide: anche aducanumab, l’unico (e discusso) farmaco approvato (negli Usa) per il trattamento della malattia di Alzheimer ha lo stesso target, ma non il solo. Ma se sulla carta gli accumuli della beta-amiloide sembrano essere un  bersaglio ideale da colpire per contrastare nella malattia, le evidenze sperimentali sull’efficacia di questo approccio sono state discordanti. Lo stesso aducanumab, per esempio, ha mostrato di poter ridurre effettivamente la beta-amiloide, ma questo non si è tradotto in benefici clinici a livello cognitivo, non sempre. L’assenza di queste prove di efficacia, anche ammettendo un razionale plausibile, e le modalità di approvazione a dispetto dei dati, sono state al centro delle polemiche che si sono sollevate intorno all’approvazione del farmaco, respinto per ora dall’Agenzia europea dei medicinali.

Lo studio nelle persone a rischio

Lo studio su crenezumab, realizzato con il supporto del National Institute on Aging (Nia), della Banner Alzheimer’s Foundation e di Roche, ha riguardato una popolazione di soggetti giovani ad alto rischio genetico di sviluppare la malattia (e per questo detta forma ereditaria o famigliare di Alzheimer). I partecipanti infatti erano persone con mutazioni a livello genico che avrebbero sviluppato con molta probabilità la malattia, ben prima dell’insorgenza della demenza nelle sue forme sporadiche, in genere già tra i 30 e i 60 anni. In particolare in questo caso si trattava di oltre 200 persone – appartenenti alla più ampia famiglia con Alzheimer familiare al mondo, i consanguinei di Antioquia – due terzi dei quali con mutazione PSEN1 E280A, una delle responsabili dell’alto rischio di malattia in queste forme ereditarie. I partecipanti sono stati randomizzati: quelli con la mutazione hanno ricevuto il farmaco (a dosi crescenti nel corso dello studio), altri il placebo, somministrato anche a un gruppo senza mutazione. Il gruppo coinvolto non aveva problemi cognitivi o sintomi di malattia all’inizio dello studio, e la somministrazione dei trattamenti è durata per almeno 260 mesi. Al termine dello studio, confrontando i gruppi di partecipanti, i ricercatori non hanno osservato differenze statisticamente significative in termini di capacità cognitive o funzione della memoria episodica. Tempo di abbandonare la ricerca di un farmaco contro la beta-amiloide?

Perché i farmaci non funzionano

No, secondo Alessandro Padovani, direttore della clinica neurologica dell’Università degli Studi di Brescia: “Tutti i modelli sperimentali e alcune evidenze cliniche indicano che la beta-amiloide ha un ruolo nella malattia, e non possiamo pensare a oggi di combattere l’Alzheimer se non si cura anche l’amiloidosi”. Anche, e non solo: uno dei motivi per cui i farmaci che prendono di mira la beta-amiloide stentano a portare risultati è che probabilmente nella lotta all’Alzheimer sia necessario agire su più fronti, considerando la natura multifattoriale della malattia. Ma non solo: riferendosi al caso particolare dei dati che arrivano dallo studio su crenezumab forse le tempistiche potrebbero essere state troppo strette. Se da un lato, in passato, si è spesso parlato della difficoltà di osservare risultati in fasi considerate troppo avanzate della malattia, agire anche troppo presto potrebbe essere un problema: “Quando entriamo in ambiti così precoci di intervento, occorre trovare modalità di valutazioni più sensibili di quelle utilizzate o tener conto di finestre temporali più lunghe per valutare i risultati”, prosegue l’esperto. Anche se lunghe – da 5 a 8 anni – erano quelle previste nello studio per la valutazione degli effetti clinici del trattamento. Ed è per questo che è troppo presto pensare di abbandonare l’ipotesi della beta-amiloide: “E’ una strada difficile, ma alcune evidenze accumulate con anticorpi in grado di ridurre effettivamente la beta-amiloide e indurre degli effetti clinici rendono a oggi difficile abbandonarla: i risultati che arriveranno da altri studi in corso su altre molecole, da quelli sullo stesso aducanumab, come gantenerumab, lecanemab e donanemab aiuteranno a fare chiarezza”. Ma anche i dati dettagliati sullo stesso studio di crenezumab – da quelli di imaging, cognitivi, ai biomarcatori molecolari – potrebbero contribuire a indirizzare la ricerca nel campo, commentano dal Nia.

Nel mentre, secondo Padovani, andrebbero fatte anche alcune considerazioni: “La malattia è più complessa di quanto abbiamo ritenuto, e dobbiamo ancora chiarirne i meccanismi sottostanti. Per esempio, finora ci siamo soprattutto concentrati sul combattere la porzione di beta-amiloide presente nei compartimenti extracellulari, ma potrebbe essere altresì molto importante considerare la pozione intracellulare – continua – non è infatti del tutto chiaro se è maggiormente tossica quella fuori o dentro la cellula”. Infine, uno dei problemi relativi ai fallimenti, o meglio ai risultati negativi degli studi contro la beta-amiloide è il nodo della specificità e della biodisponibilità degli anticorpi monoclonali: “Potrebbero non essere così specifiche contro le forme più tossiche o non essercene abbastanza”, conclude l’esperto. 



www.repubblica.it 2022-06-17 16:47:52

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