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Procreazione assistita, dalla ricerca gli strumenti per ottenere la gravidanza

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A volte anche il peso può fare la differenza. Almeno quando si tratta di tecniche di riproduzione assistita, e in particolare in caso di eterologa, quando la coppia che sta cercando di avere un bambino deve ricorrere alla donazione di ovociti di un’altra donna. Solo che in questo caso, a condizionare negativamente le probabilità di ottenere una gravidanza è il peso del partner maschile (calcolato con il Body Mass Index, l’indice di massa corporea), quando si tratta di ovociti congelati. E’ quello che ha scoperto un gruppo di ricerca guidato da Ermanno Greco, professore di Ginecologia e Ostetricia all’Università UniCamillus di Roma e direttore del Centro di Medicina della riproduzione di Villa Mafalda. “Nel nostro studio appena pubblicato su Reproductive BioMedicine Online – spiega Greco – nel 49% dei cicli senza successo gli uomini erano in sovrappeso, rispetto al 39,4% nei cicli con un test beta-HCG positivo”. Il perché è presto detto: gli uomini obesi hanno una concentrazione di spermatozoi significativamente inferiore rispetto al normale.

Ma il peso del partner maschile è solo uno dei fattori che influenza il successo di una gravidanza, continua Greco, tra i massimi esperti in medicina riproduttiva con alle spalle oltre 150 pubblicazioni scientifiche e diversi riconoscimenti internazionali per la sua attività. “Anche il giorno in cui l’embrione viene trasferito in utero influisce sull’esito del ciclo: se il trasferimento degli embrioni avviene a cinque giorni dalla fecondazione(blastocisti), anziché a due, le probabilità di una gravidanza aumentano”.

Da sempre il lavoro di Greco e della sua équipe è dunque teso a indagare le tecniche che permettono di ottenere le maggiori percentuali di successo nella procreazione medicalmente assistita. Anche in quella eterologa e con ovociti congelati, che oggi in Italia è possibile grazie alle banche dei gameti, e con percentuali di successo del tutto sovrapponibili a quelle che si possono ottenere con ovociti freschi. Il congelamento degli ovociti, per altro, è uno strumento fondamentale anche per quelle donne che non stanno ancora cercando una gravidanza ma che non vogliono precludersi questa possibilità in futuro, soprattutto quando si tratta di pazienti oncologiche che vogliono conservare intatta la loro potenzialità riproduttiva una volta sconfitta la malattia.

“Il nostro obiettivo è dunque quello di ridurre i fallimenti, che hanno un impatto psicologico importante sulle coppie che cercano una gravidanza con la PMA, nonché un notevole costo economico. Per questo abbiamo individuato alcune categorie particolarmente a rischio sulle quali mettere in atto delle strategie mirate”. Di questa categoria fanno parte, per esempio, le coppie nelle quali la donna abbia un’età avanzata (superiore ai 36/37 anni), quelle con abortività ripetuta (almeno due / tre aborti), con ripetuti fallimenti d’impianto con tecniche PMA (almeno 2/3 tentativi o più di 10 embrioni trasferiti) sia omologhi che eterologhi, e naturalmente i pazienti portatori di anomalie genetiche nella mappa cromosomica (traslocazioni, inversioni, etc.). “Queste coppie – aggiunge Greco – dovrebbero avere un trattamento finalizzato. E uno dei primi step di questo percorso è quello della diagnosi genetica preimpianto, quella tecnica che consente di selezionare l’embrione migliore da trasferire, e di trasferirne uno solo per evitare le gravidanze gemellari”.

Così, oltre ai test genetici che si conducono normalmente sulla donna prima di dare inizio al percorso di PMA (l’assetto cromosomico, l’eventuale presenza di malattie genetiche come anemia mediterranea, fibrosi cistica eccetera), nelle coppie delle categorie a rischio è importante valutare anche lo stato di salute degli ovociti. “La donna, anche quella sana, ha sempre una predisposizione a formare parte degli ovociti con anomalie cromosomiche, e questa quota aumenta all’aumentare dell’età materna. Si tratta di un punto molto importante perché l’età media delle donne che si rivolgono ai centri di PMA non è inferiore ai 38 anni, come ha rilevato l’Istituto Superiore di Sanità. E le anomalie cromosomiche negli ovociti limitano il successo anche con la fecondazione naturale. Non dimentichiamoci – aggiunge lo studioso – che una donna con meno di 30 che ha un rapporto mirato non ha più del 20, 25 per cento di probabilità di concepimento”. Questo concetto va trasferito anche nella fecondazione artificiale: se con la stimolazione ormonale si induce una donna a produrre più ovociti, sappiamo già che parte di questi avrà anomalie cromosomiche che daranno origine a embrioni non sani, che non attecchiranno. Di conseguenza, la donna dovrà sottoporsi a un numero maggiore di trasferimenti di embrioni per aumentare le probabilità di successo. Con la diagnosi genetica preimpianto, invece, la percentuale di abortività sarà ridotta. Molti studi scientifici internazionali, infatti, mostrano come a prescindere dall’età della donna il trasferimento di un’unica blastocisti sana consente di ottenere percentuali di impianto embrionario e di gravidanza evolutiva per transfer di uno o due volte superiori rispetto a quelle di una metodica tradizionale. Anche la percentuale di aborto scende notevolmente.

D’altra parte, quella della diagnosi genetica preimpianto è una possibilità prevista anche dalla Legge 40/2004, (articolo 14, comma 5), che consente a tutte le coppie che si sottopongono alla PMA (FIVET, ICSI, IMSI) di conoscere lo stato di salute dei propri embrioni prima che questi vengano trasferiti all’interno dell’utero materno. “Oggi a darci una mano sono i test NGS (Next Generation Sequencing), una tecnica di analisi cromosomica che a differenza delle precedenti (PCR, aCGH) permette di valutare non solo tutti i cromosomi dell’embrione ma anche il DNA mitocondriale, la centrale energetica che ha un ruolo fondamentale nello sviluppo embrionario e poi fetale”, spiega ancora Greco. La diagnosi preimpianto viene effettuata a livello di blastocisti (embrioni in quinta giornata di sviluppo) prelevando 5/10 cellule dal trofoectoderma, cioè da quel tessuto che darà origine alla placenta, che sono geneticamente identiche a quelle embrionarie. Questo tipo di biopsia, non essendo fatta direttamente sull’embrione come si faceva una volta, non ha nessuno impatto negativo sull’impianto o sullo sviluppo dell’embrione. Per monitorare gli embrioni e determinare le caratteristiche cinetiche, ossia la velocità con cui le cellule si replicano, è oggi disponibile anche il sistema “time lapse”, un sofisticato incubatore nel quale gli embrioni coltivati vengono monitorati continuamente da sistema di microtelecamere. Quelli che evolvono più rapidamente sono qualitativamente migliori, e questo consente di scegliere quelli che daranno più probabilmente origine a una gravidanza.

Il Professor Ermanno Greco

Il Professor Ermanno Greco 

C’è poi un’altra sottocategoria di pazienti – circa il 25 per cento di quelli con fallimenti di impianto – che presentano deficit nel tessuto che deve accogliere l’embrione, l’endometrio. Anche in questo caso, la scienza ha messo a punto strumenti che consentono di migliorare le percentuali di successo. “In particolare – continua l’esperto – possiamo fare un ERA TEST, ovvero test di recettività endometriale per capire quale sia la finestra migliore per il trasferimento embrionale, quale sia il grado di recettività dell’endometrio, e soprattutto se siano presenti alcuni linfociti, le cosiddette cellule natural killer, che possono aggredire l’embrione e provocare l’aborto”. Un ulteriore impedimento all’impianto può essere determinato da una alterazione della flora batterica uterina, con una diminuzione al di sotto del 90% della flora Lattobacillare e/o la presenza di una endometrite cronica. Anche tutto questo può oggi essere accertato con dei nuovissimi test genetici in grado di determinare con esattezza la alterazione presente (Endometriome).

In altri casi, invece, le donne che intraprendono un percorso di PMA presentano un altro problema, quello di produrre pochi ovociti. “Per questa categoria di pazienti – dice Greco – è stata messa a punto una particolare strategia di stimolazione ormonale, la DUOSTIM, che consiste nell’effettuare nello stesso ciclo due stimolazioni e due prelievi ovocitari in modo da ottenere più ovociti compensando così in un certo modo una ridotta riserva ovarica”. Non solo: anche la stessa stimolazione ormonale è migliorata nel tempo, tanto che oggi possono essere utilizzati protocolli fissi, in cui cioè il dosaggio del farmaco non deve essere adattato. E questo, conclude Greco, riduce il numero di controlli che devono essere effettuati presso il centro.

Ma una parte delle attenzioni per garantire il maggior successo del percorso di procreazione medicalmente assistita va rivolta anche all’uomo. “Ad aumentare le percentuali di successo contribuisce certamente anche una migliore selezione degli spermatozoi da iniettare all’interno dell’ovocita”, spiega Greco, visto che è ormai dimostrato come l’infertilità maschile possa generare maggiori anomalie cromosomiche degli embrioni. Da questo punto di vista, continua l’esperto, è fondamentale la selezione ad iperingrandimento degli spermatozoi (IMSI) e la selezione degli spermatozoi con un DNA integro non frammentato (MACS).



www.repubblica.it 2022-06-27 14:35:00

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