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I vegetali nel piatto che fanno paura ai bambini

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I più piccoli, quando si trovano davanti a un piatto di verdure, se va bene storcono il naso, se va male lo rifiutano facendo di no con la testa. E’ questo lo scoglio più grande che la maggior parte dei genitori deve affrontare a tavola. Ed è questo che indaga e spiega la storia di copertina “Il bambino & l’insalata. Come far mangiare verdura ai bimbi”, che troverete nel nuovo numero di Salute in edicola giovedì 28 luglio con il vostro giornale.

Il segreto per convincere i bambini

E allora qual è il segreto per convincere i bambini a mangiare più verdure? Lo scrive, nel suo reportage, Giulia Masoero Regis: dar loro un premio ogni volta che ne assaggiano un bocconcino, aumentando la loro disponibilità a testare le novità. Il suggerimento arriva da un esperimento condotto su quasi 600 bimbi dell’asilo dai ricercatori olandesi dell’Università di Maastricht, intervenuti nel maggio scorso al Congresso europeo sull’obesità per fornire nuovi spunti su come migliorare l’alimentazione pediatrica. Ma, nonostante il successo della sperimentazione, secondo psicologi e pediatri il meccanismo comportamento-ricompensa non è dei più adatti all’età dello sviluppo.

L’indagine Ismea

Secondo un’indagine Ismea datata 2016, l’ultima sull’argomento, sette genitori su dieci dichiarano che i figli consumano meno verdure di quante loro vorrebbero. Alcuni addossano la colpa al sapore, altri ai tempi troppo lunghi (che spesso in famiglia non ci sono) per preparare un buon piatto a base di vegetali,  altri ancora all’aspetto poco attraente di alcuni tipi di verdure e alle pubblicità martellanti che spingono i bambini soprattutto verso snack, merendine, panini e gelati. Ma a quanto pare c’è anche altro.

I motivi evoluzionistici

Dietro l’avversione dei più piccoli nei confronti delle verdure non ci sarebbero solo capricci e comportamenti schizzinosi, ma anche motivi evoluzionistici. Lo spiega il libro Guida per cervelli affamati (Il Saggiatore, 2021), ricordando che i nostri antenati ci hanno lasciato in eredità la neofobia, ossia un meccanismo per cui, nei primi anni di vita, dubitiamo se ingerire qualcosa che non abbiamo mai visto né mangiato perché pensiamo possa essere pericoloso. Gli esperti spiegano che i bimbi “hanno una predisposizione verso i cibi di colore rosso e il gusto dolce, e un’avversione nei confronti degli alimenti di colore verde e dal sapore amaro”.
E agiungono: “Cavoletti di Bruxelles, broccoli e carciofi sono le verdure assaggiate con più difficoltà, proprio per il loro gusto amaro, mentre carote, zucchine, pomodori, fagiolini e zucca sono tra le preferite per il loro sapore dolce o neutro”.

Meglio zucchine e carote

I pediatri insistono: “Durante lo svezzamento, l’introduzione delle verdure dovrebbe avvenire a partire dal sesto mese di vita, con almeno due porzioni al giorno”. E consigliano: “Meglio iniziare con zucchine, carote e fagiolini, ma non ci sono verdure da evitare, perché sono tutte fonte, ognuna in modo diverso, di micronutrienti essenziali per il benessere del bambino”. Allora quale può essere la strategia da usare per invogliare il bambino riottoso ad accogliere con un sorriso i vegetali nel proprio piatto?

Ecco come fare

Se premiare, insistere o punire sono metodi poco efficaci da un punto di vista educativo, Rosanna Schiralli, psicologa e psicoterapeuta, ideatrice e coordinatrice di progetti europei sull’educazione emotiva, suggerisce di cucinare le verdure imitando la forma di ricette amate dai bambini e di creare un coinvolgimento attivo. “Così le carote prendono la forma delle patatine, mentre gli spinaci pressati diventano degli hamburger – dice -. Quando invece i bimbi sono più grandi si può fare la spesa e cucinare insieme, oppure chiedere un parere sul gusto, stimolando la descrizione dei sapori. Per gioco, possiamo anche associare il consumo delle verdure ai poteri dei personaggi prediletti dai ragazzi, come si faceva un tempo con Braccio di Ferro, oppure creare dei giochi al momento dell’assaggio”.

L’insonnia è donna

Ma il nuovo numero di Salute propone approfondimenti anche su altri temi, come l’insonnia, che Elisa Manacorda declina al femminile. Premettendo che l’insonnia non è soltanto la difficoltà ad addormentarsi, ma anche quella di rimanere addormentati in modo continuo e riposante, oppure l’avere un sonno caratterizzato da risvegli precoci più di tre volte a settimana per più di tre mesi. Ed è un disturbo di cui le donne soffrono in misura significativamente maggiore rispetto agli uomini. “Il 10% della popolazione mondiale soffre di insonnia cronica, con una prevalenza nel sesso femminile che aumenta con l’età fino a raggiungere un rapporto di 1 a 3 dopo la menopausa”, ha spiegato Rosalia Silvestri, neurologa e responsabile del Centro di Medicina del sonno dell’Università di Messina. Ma quando si tratta di dormire, tante sono le differenze tra uomini e donne: nella qualità del sonno, nella sua durata, nella sua latenza (ovvero il numero di minuti necessari per addormentarsi, che nelle donne è più lungo).

Intervista al “media guru”

Infine Salute intervista due personaggi di spessore: il primo, incontrato da Gabriele Beccaria, è Frank Rose, che dirige il seminario in Strategic Storytelling alla Columbia University di New York ed è un prolifico antropologo, scrittore e giornalista. In breve, è un “media guru”: spiega agli allievi, soprattutto manager e imprenditori, che chi non sa raccontare le giuste storie al momento giusto non va da nessuna parte. Anche un medico con il paziente e, specularmente, il paziente con il medico. “Le persone reagiscono sempre ad altre persone”, riflette Rose, che al Salone del Libro di Torino ha presentato il suo ultimo saggio: Il mare in cui nuotiamo (Codice Edizioni).

Patrimonio genetico

Il secondo colloquio, a firma di Irma D’Aria, si intitola “L’uomo di Reykjavík” ed è con Kári Stefánsson, neurologo islandese, fondatore e CEO della genetica deCODE Gnenetics, con sede a Reykjavik, oggi appartenente all’azienda americana biotech Amgen Reykjavik. Stefánsson, a 73 anni guida il più grande laboratorio genetico del mondo, lo stesso che ha mappato negli ultimi 25 anni il genoma di 175mila islandesi (su una popolazione di 366mila persone).
Dopo aver insegnato neurologia e neuroscienze all’Università di Harvard e aver diretto la divisione di Neuropatologia del Beth Israel Hospital di Boston, Stefánsson ha deciso di tornare nella sua terra natale e iniziare la sua avventura scientifica fondando l’azienda biofarmaceutica con sede a Reykjavík che utilizza la bioinformatica, la statistica e l’intelligenza artificiale per scandagliare nei segreti del genoma umano, andando a caccia dei legami tra le varianti genetiche e la predisposizione alle malattie più diffuse, come quelle cardiovascolari, il diabete di tipo 2 e il cancro. Con l’obiettivo finale di sviluppare farmaci innovativi per la loro cura e la prevenzione. Ha cominciato volendo leggere il Dna degli islandesi, e oggi dispone dei dati di oltre 2 milioni e mezzo di persone.



www.repubblica.it 2022-07-27 14:06:44

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