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Covid, effetto rebound: quelli che si reinfettano dopo aver preso l’antivirale

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Effetto rebound. Si chiama così la scoperta, non senza sorpresa, di essere di nuovo positivi al Covid appena dopo essersi negativizzati, freschi freschi dall’assunzione di Paxlovid (nirmatrelvir). Quest’ultimo è un antivirale raccomandato dall’Oms contro Sars-Cov-2, sviluppato da Pfizer per il trattamento precoce degli individui positivi, ma ad alto rischio di progressione verso forme gravi di Covid.
È accaduto in questi giorni al presidente americano Joe Biden: è stato curato con Paxlovid, ma alla fine del trattamento è tornato positivo. Il capo della Casa Bianca si era amalato il 21 luglio; il tampone negativo era seguito il 26. Il giorno dopo tutto si è ribaltato: un altro test ha rilevato di nuovo la presenza del virus.

Effetto ‘rimbalzo’

Premettiamo che il rebound, o rimbalzo, non sembra essere preoccupante. Nella maggior parte dei casi – incluso quello di Biden – il nuovo tampone positivo non è accompagnato da sintomi. Quando i disturbi compaiono, sono comunque lievi. Nessun caso grave è mai stato osservato, ma gli esperti si stanno chiedendo ugualmente se non sia il caso di allungare leggermente il trattamento con gli antivirali, che attualmente è di cinque giorni, per essere sicuri che il virus sia completamente debellato dall’organismo.

Stati Uniti in guardia

Il fenomeno sta mettendo in guardia gli Usa. Nelle ultime settimane, casi simili sono stati segnalati nella letteratura medica e sui social media, spingendo l’Health Alert Network dei Centri statunitensi per il controllo e la prevenzione delle malattie (Cdc) a emettere questo avviso sanitario: “Il Covid torna nei pazienti che hanno assunto nirmatrelvir/ritonavir; sembra essere lieve e di breve durata, risolvendosi, in media, in tre giorni senza ulteriore trattamento”.
Tuttavia nessuno suggerisce che si smetta di usare il farmaco antivirale. Lo stesso avviso sanitario del Cdc afferma che l’agenzia continua a raccomandare nirmatrelvir/ritonavir per il trattamento precoce del Covid da lieve a moderato tra le persone ad alto rischio di progressione verso una malattia grave, popolazione ammissibile al farmaco ai sensi della sua autorizzazione all’uso di emergenza (Eua), concesso dalla Food and Drug Administration (Fda) statunitense nel dicembre 2021.

Di cosa si tratta

Con l’ok dell’Eua (Associazione delle università europee che rappresenta e supporta più di 850 istituti universitari in 47 stati) nirmatrelvir/ritonavir può essere prescritto per il Covid da lieve a moderato in pazienti non ospedalizzati di età pari o superiore a 12 anni, ad alto rischio di progressione verso una malattia grave a causa dell’età, dell’obesità, del cancro o di malattie croniche. Questi antivirali sono ritenuti idonei anche in pazienti ad alto rischio con Covid da lieve a moderato, ma sono ricoverati in ospedale per altri motivi.

Il dosaggio di Paxlovid

 Il trattamento deve essere iniziato il più precocemente possibile, e comunque entro 5 giorni dall’insorgenza dei sintomi. Una dose di 3 pillole di Paxlovid consiste in 2 pillole di nirmatrelvir e 1 pillola di ritonavir. Nirmatrelvir è un inibitore della proteasi che blocca la replicazione di SARS-CoV-2, mentre ritonavir aumenta il nirmatrelvir rallentandone il metabolismo nel fegato.
Ritonavir, che è stato utilizzato per potenziare gli inibitori della proteasi dell’Hiv, può anche rallentare il metabolismo di un assortimento di altri farmaci, aumentando troppo le concentrazioni ematiche. In molti casi, tuttavia, le interazioni farmacologiche possono essere gestite sospendendo temporaneamente, regolando la dose o utilizzando un’alternativa al farmaco concomitante e aumentando il monitoraggio delle potenziali reazioni avverse, secondo il trattamento Covid delle Linee guida dei National Institutes of Health.

Gli antivirali remdesivir e molnupiravir

Sebbene anche l’antivirale remdesivir  (Veklury abbia dimostrato di essere altamente efficace nel ridurre il rischio di ospedalizzazione di persone con Covid da lieve a moderato, i pazienti devono recarsi in un centro di infusione per 3 giorni consecutivi per il trattamento. Le pillole di Nirmatrelvir/ritonavir, invece, possono essere ritirate in farmacia e assunte a casa.
Allo stesso modo, l’antivirale molnupiravir (Lagevrio), che ha ricevuto un ok Eua nel dicembre 2021, sempre per il trattamento Covid da lieve a moderato in adulti ad alto rischio di età pari o superiore a 18 anni, viene assunto come pillola per 5 giorni, iniziando entro 5 giorni dal sintomo di esordio.

Lo studio

Una ricerca pubblicata nel maggio scorso, ma non sottoposta a revisione paritaria, è tra le prime a esplorare l’efficacia di nirmatrelvir/ritonavir e molnupiravir in pazienti vaccinati e non vaccinati con infezione da Omicron.
Condotto a Hong Kong, lo studio di coorte retrospettivo si è concentrato su quasi 1,1 milioni di pazienti non ospedalizzati in tutto il territorio con infezione confermata da SARS-CoV-2 durante l’ondata di Omicron BA.2.2 tra il 26 febbraio e il 3 maggio 2022. Tra questi, 5.257 hanno assunto molnupiravir, mentre 5.663 hanno preso nirmatrelvir/ritonavir.

I risultati

Entrambi gli antivirali sono stati associati a un minor rischio di mortalità per tutte le cause: una riduzione, rispetto a nessun uso antivirale, del 39% per molnupiravir, 75% per nirmatrelvir/ritonavir. Entrambi sono stati associati anche a un minor rischio di progressione della malattia in ospedale: – 36% per molnupiravir e 53% per nirmatrelvir/ritonavir.
Inoltre, si è visto che Nirmatrelvir/ritonavir ha ridotto del 31% il rischio di ospedalizzazione, mentre il rischio riscontrato nei malati Covid che assumevano molnupiravir era paragonabile a quello dei pazienti che non assumevano antivirali.

Gli interrogativi

Tuttavia, il fenomeno del rebound inatteso solleva interrogativi su come utilizzare al meglio l’antivirale. “Abbiamo più domande che risposte”, ha osservato in un’intervista Myron Cohen, direttore dell’Istituto per la salute globale e le malattie infettive dell’Università della Carolina del Nord a Chapel Hill e leader del National Institutes of Health’s Covid Prevention Network.
Nell’avviso sulla salute emesso dal Cdc si sottolinea che “un breve ritorno dei sintomi può far parte della storia naturale dell’infezione da SARS-CoV-2”, ma “in alcune persone, indipendentemente dal trattamento con Paxlovid e dallo stato di vaccinazione”.
“La Fda è a conoscenza di casi in cui i pazienti trattati con Paxlovid sono tornati ad essere positivi almeno una volta dopo essere risultati negativi”, ha osservato John Farley, direttore dell’Office of Infectious Diseases presso il Center for Drug Evaluation and Research della Fda. Ma, visto che un’ulteriore analisi dei dati della sperimentazione clinica Epic-Hr ha mostrato che circa l’1-2% dei partecipanti, sia al gruppo di trattamento che al gruppo placebo, è tornato positivo al virus dopo essere risultato negativo – ha aggiunto Farley – non è chiaro a questo punto che ciò sia correlato a trattamento farmacologico”.

La presa di posizione di Pfizer e chi è contrario

In un comunicato, la portavoce della Pfizer Jerica Pitts ha precisato: “Riteniamo che il ritorno di RNA virale nasale rilevato sia raro e non associato in modo univoco al trattamento”. Ma il coautore di uno studio Usa pubblicato nel maggio scorso e condotto su 10 pazienti che si sono ripositivizzate dopo aver assunto nirmatrelvir/ritonavir, è di parere contrario. Quando gli è stato chiesto se pensasse che l’effetto rebound potesse rientrare nel corso naturale dell’infezione da SARS-CoV-2, ha risposto: Assolutamente no”.

Perché succede?

Il virologo americano Peter Hotez, del Baylor College of Medicine, ha rivelato di essere stato lui stesso vittima di una ricaduta post-Paxlovid. “Non poteva essere dovuto a sfortuna: una seconda infezione da SARS-CoV-2 proprio mentre mi stavo riprendendo dalla prima – ha osservato – . E ciò non potrebbe essere dovuto al fatto che il virus sia diventato resistente al nirmatrelvir”.
Quindi perché succede? Gli scienziati hanno proposto alcune possibili spiegazioni. “Il primo sospetto è che si dia il farmaco troppo presto, non rispettiamo i tempi necessari – ha detto Robert Wachter, presidente dell’Università della California, San Francisco, Dipartimento di Medicina  – . Probabilmente, iniziando subito la somministrazione, si sopprime il virus e il  sistema immunitario non accelera come farebbe normalmente”. Watcher e altri esperti hanno espresso anche una seconda perplessità: 5 giorni potrebbero non essere un corso di trattamento abbastanza lungo.

L’interazione tra farmaci

Nonostante tutte le domande sul fenomeno rebound, “la sfida più grande che stiamo affrontando con questo farmaco – spiegano i virologi americani – è che non viene usato frequentemente come dovrebbe”. E proseguono: “I medici di base temono possibili interazioni tra farmaci, anche perché i pazienti in cui è più probabile che il Covid progredisca verso un’infezione grave o addirittura mortale sono anche quelli che hanno maggiori probabilità di assumere più farmaci”. Quindi? “Una cosa è certa – conclude Cohen – i test sono più importanti che mai, data la disponibilità di trattamenti efficaci contro il virus, e vanno fatti per chiarire gli aspetti ancora oscuri. Vedo un cambiamento epocale nella gestione delle infezioni respiratorie”.



www.repubblica.it 2022-08-03 07:44:56

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