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Enfatizzare gli attacchi subiti: ecco come Bearzot rese forte una squadra

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“La forza della squadra è ogni suo singolo membro. La forza di ogni membro è la squadra dove gioca”. Questa frase è di Phil Jackson, uno straordinario allenatore di basket, celebrato nella Hall of Fame avendo vinto da allenatore 11 titoli della National Basketball Association, il campionato di basket statunitense, sei con i Bulls di Michael Jordan, altri cinque con i Lakers di Kobe Bryant, due delle squadre più forti della storia. Pensavo a quella frase ricordando che sono trascorsi quarant’anni dai mondiali di calcio del 1982 in Spagna, quelli di Italia-Brasile 3 a 2, per intenderci. Quell’anno per noi c’era la maturità, ma il vero rito di passaggio che la mia generazione stava affrontando era condividere una gioia collettiva per i gol di Paolo Rossi.

Vi vorrei parlare del lavoro psicologico che fece l’allenatore Enzo Bearzot sulla sua squadra. Sfruttando alcune feroci critiche giornalistiche nelle partite precedenti al Mondiale, Bearzot fu tra i primi a inventare il giochino del “tutti contro di noi/noi contro tutti”. In sostanza, riuscì a cementare la coesione del gruppo enfatizzando, invece che attenuando, gli attacchi esterni.

Dentro il gruppo e fuori dal gruppo: insieme contro il nemico

Usando il meccanismo psicologico dell’ingroup-outgroup portò i suoi 22 giocatori a diventare un blocco unico, motivato a dare del proprio meglio per sconfiggere non solo degli avversari sportivi, ma dei veri e propri “nemici”, dentro e fuori dal campo. La storia di quei mondiali ci dice che funzionò benissimo, non solo per vincere la Coppa ma per far sì che la Nazione, a partire dal presidente Pertini, si identificasse orgogliosamente con la sua Nazionale.

Va sempre così bene? In realtà no, come dimostrano le sventure sportive che la stessa super-coesa Italia di Bearzot dovette subire negli anni successivi: non si qualificò per gli europei in Francia (1984) e andò malissimo ai mondiali in Messico nel 1986. Dov’è il trucco? Immaginate di essere in squadra degli amici che sanno di essere molto forti.

Un meccanismo che non funziona sempre: ecco le incognite

La coesione di squadra permetterebbe a ciascuno di mettere la propria forza a disposizione degli altri. Ora pensate di trovarvi in una situazione diversa, in cui, pur essendo molto legati, tra di voi serpeggino dubbi sulla effettiva forza dei singoli oppure, magari, avendo vinto il campionato precedente, ci fosse un po’ d’ansia nel rimettersi in gioco. In questo caso l’unione del gruppo sarebbe l’amplificatore dei timori e delle ansie dei singoli.

Attenzione quindi: la coesione può rendere fortissima una squadra già forte, ma può anche rendere debolissima una squadra i cui membri si sentono deboli o impreparati. La morale della favola è che la forza dei singoli va condivisa in gruppo, l’ansia e l’insicurezza vanno invece identificate con attenzione e affrontate individualmente. Perché, come direbbe Wis?awa Szymborska, le irrealizzate amicizie rendono i mondi ghiacciati.

* Professore presso il Dipartimento di Psicologia dei Processi di Sviluppo e Socializzazione, Facoltà di Medicina e Psicologia, La Sapienza – Università di Roma, di cui è preside



www.repubblica.it 2022-08-16 11:36:14

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