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Vaiolo delle scimmie: dall’incubazione ai sintomi che cosa sappiamo dei casi italiani

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Quattro mesi di epidemia e un totale di contagi che a livello globale ha superato la soglia delle 42mila unità rappresentano una base di conoscenza sufficiente per stimare le caratteristiche epidemiologiche dell’ondata di casi di vaiolo delle scimmie che sta interessando l’Europa e gli Stati Uniti.

Caratteristiche dei pazienti, tempi di incubazione, capacità del virus di saltare da un individuo a un altro: la conoscenza di questi aspetti è saliente per una corretta gestione sanitaria dell’epidemia. Aspetti che oggi iniziano a essere noti, grazie anche a un lavoro condotto in Italia. I risultati, pubblicati sulla rivista “Emerging Infectious Diseases”, hanno confermato alcune caratteristiche dell’infezione (popolazione target, modalità di contagio, decorso della malattia) e ne hanno svelate di nuove (tempo di incubazione e generazione, numero di riproduzione). Da qui le conclusioni degli autori: “Mantenere un alto livello di attenzione pubblica e fornire informazioni non stigmatizzanti ai gruppi di popolazione a rischio sono aspetti fondamentali per contenere la diffusione del vaiolo delle scimmie”.

Vaiolo delle scimmie: 740 i casi in Italia

Lo studio è stato condotto da un gruppo di ricercatori della Fondazione Bruno Kessler di Trento, del ministero della Salute, dell’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive (INMI) Lazzaro Spallanzani di Roma e dalle direzioni generali regionali della Salute della Lombardia e dell’Emilia Romagna. Punto di partenza del loro lavoro, i primi 255 casi di vaiolo delle scimmie registrati in Italia da inizio maggio e fino all’8 luglio.

Un dato, quello epidemiologico, che nel frattempo è quasi triplicato. Sono infatti 740 i contagi accertati fino a venerdì 26 agosto lungo lo Stivale. La Lombardia (318), il Lazio (136), il Veneto (49) e la Toscana (38) risultano le Regioni più colpite. Cinque quelle che, al momento, non hanno segnalato nemmeno un caso di infezione. Si tratta della Basilicata, della Calabria, del Molise, dell’Umbria e della Valle d’Aosta.

Pazienti quasi tutti uomini

Tornando al lavoro, i ricercatori hanno avuto conferma di un dato epidemiologico comune a tutti i Paesi più colpiti da questa ondata epidemica. Anche in Italia, i pazienti sono perlopiù uomini (253 su 255). E in oltre 9 casi su 10 – tra quelli considerati nello studio – si trattava di omosessuali, bisessuali e transessuali. Categorie di persone che, in ambito clinico, rientrano nel gruppo degli “MSM”. Ovvero: uomini che fanno sesso con gli uomini.

Età media: 37 anni, con casi limite rispettivamente di 20 e 71 anni. Venticinque di loro (dunque meno del dieci per cento del campione complessivo) erano reduci da un viaggio alle Canarie, dove si ipotizza che un raduno svoltosi a maggio abbia rappresentato l’evento “di amplificazione” di questa epidemia. Tuttavia, fatta eccezione per un altro paziente reduce da un viaggio in Africa occidentale, il 60 per cento dei casi registrati in Italia fino alla metà di luglio erano autoctoni. Ovvero frutto di un contagio interumano avvenuto sul territorio nazionale.

Incubazione inferiore a dieci giorni

Le eruzioni cutanee, perlopiù nell’area genitale e perianale, sono state riscontrate in 139 dei 184 casi per cui erano disponibili informazioni di questo tipo. Segno che in questi casi il contagio è avvenuto con ogni probabilità attraverso il contatto durante un rapporto sessuale. La febbre è stata rilevata invece in 151 pazienti.

Più in generale, i sintomi si sono manifestati mediamente dopo nove giorni: da qui una prima stima del tempo di incubazione dell’infezione, che intercorre tra il presunto contagio e l’insorgenza dei sintomi. Al di là della variabilità individuale, in quasi tutti i casi questo arco temporale (durante il quale occorre monitorare la comparsa dei sintomi tra i contatti stretti dei positivi, per una diagnosi precoce dei nuovi casi) è stato comunque inferiore a venti giorni.

Un’altra stima avanzata dai ricercatori – tra cui gli epidemiologi Stefano Merler e Giorgio Guzzetta della Fondazione Kessler e Gianni Rezza, direttore generale della Prevenzione del ministero della Salute – ha riguardato il tempo di generazione. Ovvero quello che passa tra l’infezione in un paziente e i contagi dallo stesso generati.

Secondo gli autori dello studio, questo periodo ammonta mediamente a 12,5 giorni. Ed è quello durante il quale “ogni paziente deve rimanere in isolamento, mentre si conducono le attività di tracciamento dei contatti”. Sulla base dei dati raccolti, infine, ogni persona positiva sarebbe in grado di contagiarne poco più di due (numero di riproduzione).

Il rischio rimane basso nella popolazione generale

Rispetto a questo scenario, i ricercatori hanno osservato due aspetti da non trascurare. Il primo rimanda al calo del numero di riproduzione, in corso da metà giugno. Un aspetto su cui potrebbe star giocando un ruolo “l’incompletezza dei dati” così come “un aumento dei livelli di attenzione e consapevolezza da parte delle persone che rientrano nella categoria degli MSM”. Si tratta, infatti, di uomini mediamente più sensibili al rischio di contrarre infezioni sessualmente trasmissibili. E che dunque potrebbero aver intrapreso azioni mirate a ridurre il rischio di entrare a contatto con il vaiolo delle scimmie: dal contenimento del numero dei partner all’utilizzo del preservativo.

Un altro spunto di riflessione avanzato nel lavoro riguarda il numero di riproduzione, stimato soltanto tra gli MSM. “Nella popolazione generale potrebbe essere invece anche inferiore a 1: dunque al di sotto della soglia epidemica”, concludono i ricercatori.

Twitter @fabioditodaro



www.repubblica.it 2022-08-31 05:58:31

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