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Tumore al seno: cosa chiedono le donne per non vivere in stand-by

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Abbandonate a se stesse, confuse e con la paura di programmare il proprio futuro. È così che si sentono spesso le donne con tumore al seno, e in particolare quelle con il tipo HER2 positivo, che rappresenta il 20% di tutti i carcinomi mammari e che ogni anno in Italia conta circa 11.000 nuovi casi. Eppure, rispetto al passato, terapie sempre più innovative hanno portato a una diminuzione sia del rischio di progressione della malattia che della mortalità.

Cosa non funziona allora? E perché dopo la diagnosi ancora tante pazienti mettono la loro vita in stand-by? Per capirlo, la Fondazione Onda – Osservatorio nazionale sulla salute della donna e di genere – lo ha chiesto direttamente a 132 donne che convivono con questa patologia, realizzando un’indagine quali-quantitativa in collaborazione con l’istituto partner ELMA Research.

L’indagine

La ricerca è stata condotta con un obiettivo chiaro: mettere a fuoco i bisogni ancora insoddisfatti delle pazienti, per individuare sia le aree in cui intervenire, sia le soluzioni più efficaci per dare loro delle risposte concrete. Il campione era composto da donne con storie di malattia diverse, per la maggior parte in trattamento attivo (79%), 2% di nuova diagnosi e 19% nella fase di follow up; con un’età media di 53 anni, per lo più con partner  stabile (74%) e figli (78%).

Il lavoro, la percezione di sé e del proprio aspetto esteriore, la sfera sessuale, le relazioni sociali e quelle di coppia sono gli ambiti che più risentono della malattia. Basti pensare che un quarto delle donne intervistate, soprattutto se in fase metastatica, ha dovuto rinunciare all’attività professionale, o comunque ridimensionare le proprie mansioni. Il 44% delle pazienti lavoratrici, infatti, deve chiedere spesso ore di permesso per sottoporsi ai trattamenti; il 35% si sente poco produttiva e una su 4 non percepisce il luogo di lavoro come inclusivo, anche perché il tumore al seno è in molti casi una malattia “invisibile”. Anche le interazioni sociali diventano meno frequenti, per via della stanchezza e di fragilità, l’intimità di coppia più complicata, e alcuni progetti per il futuro più difficili da realizzare: nel 60% dei casi, per esempio, la malattia ha spinto a rimandare l’idea di avere dei figli. 

La diagnosi: il punto di rottura

È la fase della diagnosi a segnare un vero e proprio punto di rottura con la vita precedente, determinando un cambiamento nella percezione del tempo. Si comincia a dare più valore alle “piccole cose” (per il 37% del campione) e al tempo in generale (per il 30%). Una paziente su quattro percepisce in modo negativo tutto il tempo dedicato alla cura della malattia e quasi la metà ha il timore di ciò che può accadere o della possibilità di un peggioramento ma, più in generale, anche di programmare impegni a lungo termine: si vive solo, costantemente, nel presente e con una scarsa percezione del ‘domani’. “Dal momento della diagnosi c’è uno stravolgimento totale della vita delle pazienti a livello fisico e psicologico, poiché la donna viene colpita sia nella sua femminilità sia nelle prospettive per il futuro, cambiando la vita di coppia, familiare e lavorativa” – spiega Francesca Merzagora, Presidente di Fondazione Onda. “Il senso di spaesamento e confusione che accomuna i vissuti di queste pazienti sottolinea la necessità di inquadrare chiaramente la patologia e il suo percorso di cura”.  

I momenti più critici e quelli di “reazione”

L’avvio del percorso terapeutico è considerato in molti casi il punto più critico, il più travagliato, con momenti di ‘vuoto’ e senza una reale visione d’insieme di quello che sarà l’iter da affrontare; per questa ragione spesso si fa fatica a ricostruire la sequenza e la tipologia degli esami e dei controlli effettuati, restituendo la fotografia di un periodo estremamente confuso e caotico. L’intervento chirurgico, per quanto invasivo, rappresenta invece uno dei momenti in cui si reagisce in modo concreto alla malattia e si ricomincia a vivere il presente, lasciando aperto uno spiraglio sul domani. I follow up, in seguito, tornano ad essere spesso motivo di grande apprensione per la possibilità di comparsa di recidive, che potrebbero segnare un passo indietro rispetto al traguardo della guarigione. Anche la fine delle terapie viene vissuta con difficoltà, perché si ha la percezione di essere di nuovo in balia dell’incertezza. 

Manca la figura “guida”

Un’intervistata su tre ritiene che per aiutare a colmare il senso di confusione e vuoto sia necessaria una figura di riferimento in grado di dare una visione di insieme degli step da seguire, delle diverse opzioni terapeutiche possibili. In questo modo, si avrebbero percorsi diagnostico-terapeutici più organizzati, ci si sentirebbe più coinvolte e si avrebbe un ruolo più attivo nella scelta consapevole del piano di cura. Accanto a questo, per metabolizzare la convivenza con la patologia e tutto ciò che essa comporta, il 35% delle pazienti vorrebbe il supporto continuativo di uno psiconcologo, ovvero uno psicologo con una specifica formazione ed esperienza professionale in ambito oncologico, in grado di supportare le pazienti e i loro familiari durante tutto il percorso della malattia. “Pensieri ed emozioni contrastanti affliggono sia la paziente che il caregiver, spesso modificando le dinamiche relazionali e comunicative – spiega Chiara Marzorati, psicologa e psicoterapeuta presso la Divisione di Psiconcologia dell’Istituto Europeo di Oncologia di Milano – È dunque fondamentale prevedere programmi di supporto rivolti a tutto ‘l’ecosistema famiglia’, che possano favorire l’adattamento a una realtà in continua trasformazione: ad esempio momenti di psico-educazione a tutti gli aspetti emotivi e cognitivi”.

Comunicazione come cura

Quello della comunicazione tra medico e paziente, tra medici e tra pazienti è un aspetto su cui c’è ancora tanto da lavorare: ancora troppo spesso, dicono le donne, le diagnosi vengono comunicate in modo distaccato e poco empatico, rendendo l’esperienza della malattia più traumatica. Non a caso, sempre più corsi universitari in medicina e chirurgia stanno introducendo ore di formazione dedicate alla gestione della comunicazione, in cui il momento di relazione con il paziente è considerato a tutti gli effetti un momento di cura. Una migliore comunicazione e collaborazione tra medici di medicina generale e specialisti, invece, faciliterebbe la pianificazione di visite, controlli e follow up, ottimizzando l’organizzazione e diminuendo i tempi di attesa. Mentre gruppi di discussione tra pazienti, gestiti da personale specializzato, aiuterebbero a condividere le esperienze di malattia e a sviluppare un senso di comunità.

Più informazioni sulla malattia e sui trattamenti

Anche avere a disposizione informazioni più complete e aggiornate è un altro dei bisogni insoddisfatti. Sono tante le domande che le pazienti si pongono rispetto alle diverse fasi della malattia e al suo impatto sulla vita quotidiana, ai trattamenti terapeutici disponibili, agli interventi chirurgici e a quelli di ricostruzione, a quello che sarà il percorso di cura step by step. Non di meno, sentono il bisogno di avere maggiori informazioni sugli avanzamenti della ricerca scientifica, e su come accedere alle sperimentazioni o a nuovi farmaci. Le risposte, spesso, vengono cercate online oppure sui social. 

“Curarsi per vivere, e non vivere per curarsi”

“Fino a non molto tempo fa, il tumore Her2 positivo era considerato il tumore con la prognosi peggiore tra le donne con tumore alla mammella – spiega Filippo de Braud, ordinario all’Università di Milano e Direttore del Dipartimento e della Divisione di Oncologia Medica dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano – oggi invece è quello che può essere curato meglio, perché esistono più opzioni terapeutiche in grado di portare risultati efficaci, anche in pazienti in fasi avanzate della malattia. Tuttavia – continua de Braud – questi progressi scientifici e tecnologici non sono stati accompagnati da miglioramenti nei processi organizzativi, informativi e nella comunicazione. Bisogna da un lato definire con chiarezza il percorso di cura e dall’altro aiutare le pazienti ad aderirvi – conclude – investendo in strutture che le aiutino a gestire il loro tempo con meno fatica, aiutandole a curarsi per vivere anziché a vivere per curarsi”.



www.repubblica.it 2022-10-28 09:42:55

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