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Alzheimer, donne più colpite ma trascurate da ricerca e medicina

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“Ho perso me stessa”. Così inizia la storia della malattia di Alzheimer. A parlare è Auguste Deter, una donna di due secoli fa, nata a Kassel, in Germania, il 16 maggio 1850. A poco più di 50 anni Auguste comincia a perdere la memoria, ha difficoltà a parlare, è disorientata.

Il marito, allora, decide di portarla a Francoforte per un consulto presso un giovane ma promettente medico, Alois Alzheimer. Ad Auguste viene diagnosticata una forma di demenza presenile: era decisamente troppo giovane per mostrare i disturbi tipici di un’età più avanzata.

Dopo la sua morte Alzheimer ottiene il permesso di esaminare il cervello di Auguste tramite autopsia. Ed ecco, visibili per la prima volta al microscopio, le lesioni tipiche della malattia: le placche amiloidi e gli ammassi neurofibrillari, in un quadro di spiccata atrofia della corteccia cerebrale.

La prima paziente

Fu un caso che il dottor Alzheimer scoprì la malattia proprio su una donna? Probabilmente no. Certo, all’epoca, attorno alle donne, l’aura della malattia mentale, dell’isteria, del morbo incurabile, aleggiava pesantemente. Ma per una malattia che oggi colpisce per i due terzi dei pazienti individui di sesso femminile, certamente anche a cavallo tra ‘800 e ‘900 ci sarà stata una maggior affezione per le donne e, quindi, una maggior possibilità di scovare le lesioni frugando tra le pieghe del tessuto nervoso di cadaveri femminili.

Perché l’Alzheimer colpisce di più le donne?

Ma perché le donne sono maggiormente colpite da demenza di Alzheimer? A interrogarsi sulle cause è stato il congresso “L’Alzheimer preferisce il rosa: viaggio attraverso una patologia declinata al femminile”, organizzato da Fausto Fantò all’ospedale San Luigi di Orbassano, in provincia di Torino. Giornata, per altro, che ha visto alternarsi solo relatrici donne, in un messaggio di piena parità di genere, contando che oggi, ancora, a presenziare con contributi ed interventi in congressi di settore nell’accademia è una prevalenza maschile.

I motivi per cui l’Alzheimer colpisce maggiormente le donne sono molteplici: dalla biologia al contesto sociale in cui si vive. Tra i fattori di rischio biologici, per le donne, contano il numero di gravidanze avute, l’ipertensione, la menopausa precoce. Gli estrogeni potenziano i neuroni, le sinapsi ed il cuore: in menopausa le donne diventano infatti più vulnerabili a molte malattie.

Età, genetica, depressione

L’età, mediamente superiore, inoltre, nella popolazione femminile, rende conto di un maggior declino cognitivo nelle donne. Ancora, la presenza di mutazione a carico del gene APOE-e4, situato sul cromosoma 19: tra i portatori di questa mutazione le donne sono a maggior rischio di sviluppare la patologia. Infine, la depressione: le aree cerebrali deputate alla memoria ed all’umore occupano siti vicini. E la depressione è maggiormente presente nella popolazione femminile. In altre parole, donne depresse possono più facilmente ricevere diagnosi di Alzheimer. Quando, per altro, la ricevono in tempo.

Più difficile la diagnosi precoce

La letteratura scientifica evidenzia come le donne, a parità di gravità di malattia, mostrino, rispetto agli uomini, una performance migliore nel superamento dei test, sfuggendo ad una diagnosi di tipo precoce. Senza contare che, una volta diagnosticata la malattia ed intrapreso un iter terapeutico, gli stessi farmaci somministrati contro l’Alzheimer a uomini e donne, dagli antipsicotici ai modulatori neuronali, possono dare diversi esiti di terapia.

Oltre alla biologia, la pressione sociale

E, poi, tutto il carico sociale. Le donne nel mondo sono mediamente meno istruite degli uomini e, per diversi motivi, hanno un lavoro meno stimolante, quando ce l’hanno. Ecco, allora, che le giovani donne, dall’Afghanistan al Sudamerica, dovrebbero pretendere di andare a scuola e di poter lavorare secondo le proprie aspirazioni: non sarebbe altro che equità sociale con significato clinico.

Contano moltissimo dunque, nella partita dell’Alzheimer a sfavore delle donne, la biologia e i dettami sociali, ma non solo. Le donne sono molto più coinvolte nell’assistenza ai malati in seno alla famiglia. Gli studi dimostrano che il 60-70% dei caregiver è donna e, in tutti i Paesi, è presente la generale aspettativa che siano proprio le donne a farsi carico di questo ruolo.

In Italia, ad esempio, si stima che il 70% dei malati sia assistito a domicilio da donne in modo gratuito: tutto questo ha ricadute anche sulla salute di chi presta le cure. Le donne che curano le malattie della famiglia, dai figli disabili ai genitori anziani malati, prestando assistenza quotidiana per anni, sono più esposte, invecchiando, al declino cognitivo.

Puntare all’equità più che all’uguaglianza

Allora, nel XXI, secolo si dovrebbe cominciare a considerare le malattie a partire dalle variabili che caratterizzano ciascun individuo, rendendo conto di un universo di malati e malate decisamente variegato. Il giusto approccio di studio in ogni disciplina non può essere quindi quello incardinato sul concetto di uguaglianza, se pur idealmente giusto, ma su quello di equità. E l’equità non è altro che lo strumento corretto con cui evidenziare in modo costruttivo le differenze che ci caratterizzano, nella malattia come nella salute.

Finché continueremo a basarci su un generico concetto di uguaglianza continueremo a commettere errori grossolani.

L’approccio sesso e genere specifico nella cura è come una lente attraverso cui è possibile vedere le persone in modo più chiaro, senza pregiudizi, senza semplificazioni. Tutto conta e tutto deve contare: il sesso, ovvero la nostra realtà biologica; il genere, costrutto più ampio in cui ci riconosciamo nel corso della vita. L’approccio di cura mirato è, in sostanza, un vero atto di democrazia.

Silvia De Francia è ricercatrice al dipartimento di Scienze Cliniche e Biologiche dell’Università di Torino



www.repubblica.it 2022-11-18 06:43:44

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