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Tumori, nei geni il segreto per migliorare l’immunoterapia

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L’immunoterapia è uno strumento potente nella lotta contro il cancro, specialmente nel caso di tumori che ancora oggi risultano difficili da trattare con chemioterapia, radioterapia e intervento chirurgico. L’idea di stimolare la risposta immunitaria del paziente per combattere il tumore ha migliorato in modo sostanziale la sopravvivenza di una fetta sempre più ampia di pazienti affetti da diversi tipi di neoplasie. È necessario tuttavia continuare a studiare nuovi possibili target molecolari per l’immunoterapia, dato che una frazione di pazienti continua a non ricevere beneficio dalle cure attualmente disponibili. Lo studio recentemente pubblicato su Journal of Translational Medicine dal gruppo di ricerca guidato da Antonio Facchiano, oncologo specializzato nello studio dei melanomi, va proprio in questa direzione. La ricerca suggerisce di guardare nei geni per trovare nuove terapie immunologiche. Ecco come.

 

 I “posti di blocco” del sistema immunitario

 
Facchiano e il suo team hanno studiato i livelli di espressione genica di nove recettori, cosiddetti “immune checkpoint”, che in condizioni normali rivelano alle cellule del nostro sistema immunitario se le altre cellule che incontrano all’interno del corpo sono dannose e devono quindi essere attaccate (come nel caso di agenti patogeni o, appunto, cellule tumorali), o se appartengono invece al nostro organismo e devono quindi essere lasciate intatte. Agiscono, insomma, come dei veri e propri posti di blocco. Alcuni tumori, però, “imparano” a sfruttare questo meccanismo a loro favore, in modo da passare inosservate al “posto di blocco” e continuare a proliferare in modo incontrollato. 

L’immunoterapia si basa proprio su farmaci che agiscono a questo livello, con l’obiettivo di sbloccare la nostra naturale risposta immunitaria contro le cellule tumorali, con i cosiddetti inibitori dei checkpoint immunitari. L’intuizione che fosse possibile sfruttare il sistema immunitario per combattere indirettamente i tumori è stata rivoluzionaria, al punto che gli studi sui checkpoint immunitari sono valsi il Nobel nel 2018 a James P. Allison e al collega Tasuku Honjo.

 
Lo studio suggerisce che sia possibile usare questi recettori  ampiamente studiati e alcuni dei quali, come CTLA, PD-1, già target di farmaci immunoterapici “storici”- come marcatori di malattia. “Abbiamo confrontato i livelli di espressione dei geni relativi a questi nove checkpoint immunitari in pazienti oncologici e persone sane, per un totale di oltre 15mila individui presi in considerazione – spiega il ricercatore – Per molti dei 31 tipi di tumore analizzati, l’espressione di queste nove molecole risulta alterata nei pazienti ammalati rispetto alle persone sane”. Inoltre, l’analisi fornisce dei valori numerici, quantitativi, legati ai livelli di espressione normale o, viceversa, potenzialmente patologica dei nove indicatori. Questo intervallo di valori costituirebbe un importante aiuto nel rendere la diagnosi sempre più obiettiva e meno basata su osservazioni di tipo qualitativo. “Ovviamente – precisa Facchiano – l’analisi del patologo resta essenziale per quanto riguarda la diagnosi. Però avere dei numeri ai quali fare riferimento può certamente essere un grande aiuto”.

Questo studio apre nuove prospettive non solo per l’impiego di questi recettori  come marcatori di malattia ma anche per estenderne l’uso come bersagli terapeutici. “Abbiamo analizzato l’espressione di questi target nei pazienti in funzione della loro sopravvivenza alla malattia. Si è visto, in particolare, che per alcuni tipi di tumori tutti e nove questi geni sono associati alla sopravvivenza. Per il melanoma, ad esempio, alti valori di espressione di questi geni sono associati a un significativo miglioramento della sopravvivenza, mentre per altri tipi di tumore vale l’opposto”. 

Un approccio combinato

 

Malgrado i possibili risvolti in ambiti diagnostici e terapeutici – come la possibilità di usare farmaci già esistenti per altri tipi di tumori- scopo più immediato del lavoro è quello di accelerare le sperimentazioni. I nostri sono dati ottenuti in silico, analizzando con modelli matematici e statistici i valori di cui disponiamo – spiega il ricercatore – La dimostrazione finale dell’efficacia di una certa terapia deve certamente essere effettuata tramite uno studio clinico. Però con il nostro studio pensiamo di poter accelerare di molto i tempi, dando delle indicazioni chiare rispetto a quali dei farmaci già esistenti dovrebbero essere immediatamente testati in clinica, portando potenzialmente a risultati utili in pochi mesi”. I prossimi passi saranno includere negli studi dati come genere, sesso, età, stadio del tumore e specifiche terapie alle quali i pazienti sono stati sottoposti. “Questo – conclude Facchiano – ci permetterà un inquadramento ancora più preciso di nuove possibili opzioni terapeutiche”.



www.repubblica.it 2022-11-21 15:47:28

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