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L’Alzheimer non è uno solo: scoperte 5 forme diverse

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Non esiste un solo Alzheimer: sono almeno cinque. E anche se questa consapevolezza allungherà i tempi ed eleverà alla potenza il lavoro alla ricerca di una cura efficace, la buona notizia è che questa inattesa scoperta potrebbe rimettere sul piatto della bilancia decine di farmaci e terapie sinora scartate perché considerate erroneamente inefficienti, o poco efficaci.

I dati

Secondo le stime dell’Osservatorio demenze dell’Istituto Superiore di Sanità, in Italia sono 600 mila i malati di Alzheimer. A livello mondiale le demenze compliscono 55 milioni di persone, ma è un dato che cresce su base giornaliera, con previsioni che raggiungono i 78 milioni entro il 2030. Un passo avanti per capire come funziona il morbo descritto per la prima volta nel 1906 dal neuropatologo Alois Alzheimer è stato fatto lo scorso anno, quando si è capito che l’accumulo di proteine beta amiloide e tau che portano al declino cognitivo è associato a un’alterata produzione di energia a livello cellulare.

Invecchiando, i mitocondri non funzionano più come dovrebbero, compromettendo così alcuni processi fondamentali per la cellula nervosa. Questo, però, rispondeva solo a una parte della domanda.

La ricerca

Iniziato l’accumulo di placche nel cervello, ogni declino è differente: entrano in gioco altri processi biologici, come l’infiammazione e la crescita delle cellule nervose. Ora, utilizzando nuove tecniche di analisi del liquido cerebrospinale, gli scienziati dell’Alzheimer Center di Amsterdam e dell’Università di Maastricht sono stati in grado di misurare l’impatto degli altri processi che influenzano l’andamento neurodegenerativo e scoperto che esistono almeno cinque varianti biologiche della malattia, caratterizzata da altrettante possibili vie di cura.

Cinque varianti di Alzheimer

Nello studio appena pubblicato su Nature Aging, Betty Tijms e Pieter Jelle Visser hanno esaminato 1058 proteine nel liquido cerebrospinale di 419 persone affette da morbo di Alzheimer, il che ha portato a suddividerli in cinque varianti di malattia che differiscono nel grado di sintesi proteica, nel funzionamento del sistema immunitario, alla produzione del liquido cerebrospinale fino alla disregolazione dell’Rna, il che porta a una insorgenza più o meno precoce e a un decorso più o meno rapido e invalidante.

Le due varianti più comuni sono caratterizzate da una maggiore produzione di amiloide e da una barriera emato-encefalica interrotta, con una minore crescita delle cellule nervose. Caratteristiche sostanziali che hanno una grande importanza per le strategie di cura e la ricerca sui farmaci, dato che una molecola potrebbe funzionare bene su una variante della malattia, ma essere completamente inefficace per un’altra.

Che cosa cambia

La scoperta di queste cinque varianti – ma potrebbero essere anche di più, dato che questa demenza colpisce qualcosa come 44 milioni di persone in tutto il mondo – cambia le regole del gioco. Questo perché prima di tutto bisognerà creare un test affidabile per sapere a quale variante si appartiene, e poi iniziare una serie di trial specifici per ogni sottotipo molecolare, che ha distinti profili di rischio genetico, anche prendendo in considerazione delle molecole che erano state scartate perché inefficaci nel contrastare l’accumulo di proteine beta miloide e tau.

“Per fare un esempio, i farmaci che inibiscono la produzione di amiloide possono funzionare nella variante con maggiore produzione di amiloide, ma possono essere dannosi nella variante con ridotta produzione – spiegano gli autori – . È anche possibile che i pazienti con una variante abbiano un rischio maggiore di effetti collaterali, mentre tale rischio è molto più basso con altre. Il prossimo passo per il nostro gruppo di ricerca sarà dimostrare come le varianti dell’Alzheimer reagiscono effettivamente in modo diverso ai farmaci, in modo da poter curare tutti in futuro con farmaci adeguati”.

La sfida per i ricercatori: per ogni Alzheimer la sua terapia

Inutile dire che i tempi si allungheranno: i ricercatori ora si trovano davanti alla sfida di trovare una cura non per un Alzheimer, ma per cinque differenti. E dovrebbero anche essere revisionate tutte le ricerche sinora condotte che non hanno tenuto conto dei distinti profili di rischio genetico.

“Il liquido cerebrospinale è il biofluido più accessibile per studiare la complessità molecolare delle malattie neurodegenerative durante la vita. È in stretto contatto con il cervello e le concentrazioni di proteine nel liquido cerebrospinale riflettono i processi patofisiologici in corso. Le alterazioni molecolari specifiche dei sottotipi sembrano essere presenti già in una fase molto precoce, quando la cognizione è ancora intatta e il danno neuronale limitato”. Questo apre la possibilità di sottoporre ogni caso sospetto a un prelievo di liquor tramite una puntura lombare, per appurare effettivamente se si tratta di Alzheimer e di quale variante.

La diagnosi

Anche una risonanza magnetica funzionale è in grado di evidenziare le differenze, dato che “i casi differiscono nel grado e nella posizione anatomica dell’atrofia corticale”, ma questo esame può confutare solo uno stato ormai avanzato della malattia. “Questo ci dimostra che la sottotipizzazione basata sul liquido cerebrospinale può essere utile per selezionare gli individui per uno specifico trattamento terapeutico, sia per la stratificazione dei soggetti sia per l’analisi dei rispondenti e degli effetti collaterali negli studi clinici. Ma i prossimi studi – concludono Betty Tijms e Pieter Jelle Visser – dovranno prima di tutto rianalizzare la proteomica nei campioni delle ricerche già svolte, per verificare se particolari trattamenti hanno effetti specifici in base al sottotipo a cui si appartiene”.



www.repubblica.it 2024-01-19 08:57:42

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