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Linfedema, cosa sapere per ridurre il rischio

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Il 6 marzo prossimo sarà la Giornata mondiale dedicata al linfedema, una condizione che può verificarsi in seguito all’asportazione di linfonodi, cosa che avviene in molti casi di intervento per tumore al seno. Per dirla con parole semplici, si tratta dell’accumulo di liquido linfatico che porta il braccio operato a gonfiarsi. È possibile prevenirlo? E come si cura una volta che si è sviluppato. Lo abbiamo chiesto ad Antonella Manna, fisioterapista esperta in malattie linfatiche nel reparto di Fisioterapista della riabilitazione specialistica diretta da Arnaldo Andreoli dell’Ospedale Sacco di Milano, e volontaria Andos Odv- Associazione nazionale donne operate al seno  – Comitato di Milano.

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Dottoressa Manna, quanto è frequente il linfedema, oggi, nelle donne operate per tumore al seno?

“Certamente è molto meno diffuso rispetto al passato, ma di casi se ne verificano ancora tanti. Stime di incidenza dell’Organizzazione Mondiale della Sanità riferite al 2020 indicano che il problema si presenta ancora nel 20-25% delle donne sottoposte all’asportazione dei linfonodi ascellari e la percentuale sale al 35-40% quando all’intervento si associa la radioterapia. Numeri non bassissimi, considerando le migliaia di donne che ogni anno si sottopongono all’intervento chirurgico. Il rischio esiste, sebbene sia molto ridotto, anche in chi effettua soltanto l’asportazione del linfonodo sentinella, ossia il primo che si incontra nella via linfatica che parte dal seno e che viene analizzato per capire se il tumore si è già diffuso al cavo ascellare. In questo caso, la possibilità va dal 3 al 20% e dipende, per esempio, da dove è posizionato il linfonodo”.

In generale, da cosa dipende il rischio?

“Ci sono molti fattori in gioco: dal tipo di tecnica chirurgica ma anche dall’anatomia di ciascuna donna. E, ovviamente, da quanto si espone al rischio di infezioni nell’arto operato. Con l’asportazione dei linfonodi, infatti, il sistema linfatico viene più o meno danneggiato, con ripercussioni sul sistema immunitario a livello locale. Un qualsiasi insulto a livello dell’arto, quindi, può generare infezioni o infiammazioni che possono poi portare allo sviluppo del linfedema, o peggiorarlo”.

Per quanto permane il rischio, dopo l’operazione?

“Questa è una domanda molto importante, perché le donne sono quasi sempre inconsapevoli del fatto che il rischio permane per tutta la vita. Nella mia esperienza ho incontrato donne che lo hanno sviluppato dopo più di 10 anni dallo svuotamento del cavo ascellare, in un caso era stato scatenato da una semplice misurazione della pressione. E un altro messaggio importante da far passare è che non è prevedibile il momento in cui si svilupperà, perché anche la conformazione fisica cambia nel tempo. Purtroppo, una volta che il linfedema si è sviluppato, diviene una condizione cronica: non è possibile farlo ‘sparire’. Dico questo non certo per spaventare le pazienti, ma perché sono fermamente convinta che la prima prevenzione sia l’informazione e la consapevolezza. Purtroppo constato quotidianamente quanta poca conoscenza ci sia di questa complicanza del trattamento del tumore al seno”.

Esistono delle strategie di prevenzione?

“Sì, ma è molto difficile dare consigli generali che siano validi per tutte. L’ideale sarebbe poter valutare in modo strumentale il sistema linfatico, cosa che però, nella pratica clinica, è impossibile da attuare. Tutte le donne operate per cancro al seno dovrebbero fare una visita fisiatrica: anche in questo caso, però, sarebbe importante che il fisiatra facesse parte del gruppo multidisciplinare di una Breast Unit o fosse formato sul rischio specifico. Le associazioni di pazienti possono essere un buon punto di riferimento per sapere dove rivolgersi. Nella pratica, la strategia più efficace è conoscere i fattori di rischio per ridurli al minimo”.

Quali sono? 

“Sappiamo, per esempio, che il fumo e il sovrappeso aumentano il rischio. Vanno inoltre evitati nel braccio operato i prelievi venosi, le iniezioni e, a maggior ragione, gli interventi più invasivi. Un altro caso che ho seguito si è verificato in seguito a una coronarografia, nonostante la paziente avesse segnalato che aveva subito lo svuotamento ascellare. Ancora, bisogna fare particolare attenzione alle punture di insetto. Un guanto compressivo di classe 1, la più leggera, è consigliato in generale a chi fa lavori che prevedono la ripetizione degli stessi movimenti o se bisogna affrontare un lungo viaggio”. 

Ci sono sintomi “spia”?

“Uno sintomo a cui prestare attenzione è il senso di pesantezza del braccio o il gonfiore la sera. Quello è il momento di rivolgersi a uno specialista e bisognerebbe cercare centri specializzati nel linfedema. Che non sono tanti, specialmente pubblici”.

Nel momento in cui si sviluppa il linfedema, quali strategie si hanno, al di là della chirurgia?

“La valutazione è sempre personalizzata. Il gold standard è la terapia decongestiva complessa, che prevede una fase iniziale più intensiva che ha lo scopo di drenare e decongestionare l’arto attraverso la cura della cute, il bendaggio linfologico multistrato, il linfodrenaggio e la ginnastica dell’arto bendato. Segue poi una fase di mantenimento lunga, affidata alla paziente, che include l’uso del tutore elasto-compressivo. L’importante è rivolgersi sempre al fisiatra e mai ai centri estetici: questi interventi devono essere prescritti da medici ed eseguiti da fisioterapisti esperti. Il tutore viene valutato insieme dall’equipe riabilitativa e dal tecnico ortopedico, e personalizzato in base alla tipologia e alle esigenze della paziente. Per chi volesse saperne di più, consiglio il libro “Liberi di vivere con linfedema”, pubblicato recentemente. Dove si affronta questa condizione da diversi punti di vista, compreso quello a me molto caro della terapia della risata”.

 



www.repubblica.it 2024-03-04 13:01:36

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