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Sclerosi multipla, colpire il bersaglio giusto per proteggere la materia grigia

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Studiare il meccanismo di azione di farmaci già usati nella cura della sclerosi multipla per capire come potenziare il trattamento contro le forme progressive, le più difficili da trattare. E’ con questo obiettivo in mente che un gruppo di ricercatori sparsi tra gli atenei di Toronto, Basilea e Mainz si è imbarcato nello studio dettagliato dell’azione dei farmaci che prendono di mira la proteina CD-20 espressa sui linfociti B. I risultati del loro lavoro sono stati presentati sulle pagine di Science Translational Medicine. 

Pur trattandosi di uno studio preliminare, per lo più condotto sui modelli animali e campioni provenienti da pazienti, la ricerca suggerisce alcune strategie per potenziare l’azione degli anti-CD20, che puntano dritte nella direzione di una proteina con azione neuroprotettiva: BAFF. Ma andiamo con ordine.

 

Approfondire i meccanismi di azione

 

Contro la sclerosi multipla ci sono farmaci che colpiscono CD-20 che funzionano – ocrelizumab è uno di questi – e che riescono a contrastare la formazione di nuove lesioni nel sistema nervoso centrale riducendo la disabilità. Alcune forme della malattia però sono più difficili da trattare rispetto ad altre, e per queste c’è un disperato bisogno di nuove soluzioni terapeutiche. E’ il caso delle forme progressive di malattia. 

Ocrelizumab, in particolare, funziona abbastanza bene nelle forme recidivanti remittenti, meno in quelle progressive, racconta a Salute Valeria Ramaglia, ricercatore associato presso il Dipartimento di Immunologia dell’Università di Toronto, tra gli autori del paper. “I linfociti B, presi di mira dagli anti-CD20, si accumulano nelle meningi dei pazienti sin dall’inizio della malattia e sono associati al danno della corteccia cerebrale, con l’evoluzione della patologia. Ocrelizumab riduce le lesioni nel sistema nervoso centrale e la progressione della disabilità, ma non sappiamo esattamente come eserciti i suoi benefici”. 

Due sono le ipotesi al riguardo, prosegue la ricercatrice italiana: la prima è che eliminando i linfociti B si eliminino i processi patologici indotti dagli stessi linfociti, ma è anche possibile che, eliminando i linfociti B, si inneschi un altro meccanismo protettivo. “Volevamo inoltre capire se ocrelizumab, oltre ad agire sulla sostanza bianca (le connessioni nervose, nda) potesse avere qualche effetto sulla sostanza grigia (i corpi cellulari dei neuroni stessi, nda)”, prosegue la ricercatrice. La stessa sclerosi multipla, infatti, si caratterizza da lesioni a carico della materia bianca, ma la progressione della malattia determina anche danni a livello della materia grigia e perdita del volume cerebrale, ricordano gli autori.

Favorire la neuroprotezione

 

Gli esperimenti, le osservazioni derivanti da sperimentazioni cliniche passate, e analisi di campioni umani suggeriscono che l’eliminazione dei linfociti B inneschi un effetto neuroprotettivo. Gli scienziati hanno infatti osservato che, quando alcuni modelli animali di malattia venivano trattati con anti CD-20, era possibile osservare dei benefici anche a livello della corteccia cerebrale e dunque della sostanza grigia. Benefici imputabili a una proteina nota come BAFF, hanno ipotizzato. “Studi su pazienti avevano mostrato che le persone trattate con anti-CD20 avevano livelli più elevati di questa proteina e che quando si blocca BAFF i pazienti peggiorano – riprende Ramaglia – sappiamo inoltre che quando BAFF è molto elevata nei modelli animali di malattia questa non si sviluppa”. Così, quando i ricercatori sono andati a trattare i topi sia con anti-CD20 che con anti-BAFF hanno scoperto che la malattia progrediva, come se bloccando BAFF si bloccassero i benefici di ocrelizumab, spiegano. “L’azione neuroprotettiva di questa proteina è stata confermata anche dall’analisi del plasma di alcuni pazienti trattati con ocrelizumab: quando BAFF era più elevato, la neurodegenerazione era minore”.

Il significato dello studio e gli sviluppi futuri

 

Come interpretare tutte queste informazioni? Per Ramaglia aver fatto luce più a fondo sul meccanismo di azione degli anti CD-20 è importante soprattutto per le forme progressive della sclerosi multipla. “Sappiamo che questi farmaci funzionano, ma abbiamo indizi che ci fanno pensare che la loro azione debba essere in qualche modo ‘spinta’ nelle forme progressive, agendo per esempio su BAFF. Magari in futuro potremmo immaginare di sviluppare terapie in combinazione con gli anti-CD20 proprio per potenziarne l’azione”. Ed è per questo che i prossimi passi dei ricercatori mireranno ad approfondire i meccanismi neuroprotettivi di BAFF.



www.repubblica.it 2024-03-08 14:12:01

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