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Depressione, per tornare a stare bene non bastano i farmaci

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Sono ancora in tanti a pensare, in maniera semplicistica e approssimativa, che chi è depresso lo è perché non riesce a trovare le giuste motivazioni per uscire dallo stato di prostrazione nel quale si trova. Gli studi disponibili nella letteratura scientifica, invece, definiscono sempre più la depressione come una malattia sistemica che dipende da molteplici fattori, come cause genetiche ed ereditarie, psicologiche, sociali o correlate a traumi e condizioni di stress. La depressione, dunque, è tutto tranne che una scelta.

Essere depressi non è una scelta

“Visto che il contributo dei fattori specifici che possono causare la depressione varia da persona a persona, è necessario che la diagnosi e la terapia di un paziente depresso siano fatte tenendo presenti le caratteristiche specifiche del singolo individuo, poiché le soluzioni possono essere diverse a seconda dei fattori che hanno contribuito al quadro clinico” commenta il professor Andrea Fagiolini, direttore del Dipartimento di Salute Mentale e Organi di Senso all’Università di Siena.

Proprio perché il disturbo è estremamente complesso non basterà mai una semplice compressa per risolvere la situazione, come ci ricorda il professor Fagiolini : “Non credo che succederà mai che, per risolvere la depressione, ci si limiti a dare una semplice compressa. Anche nei casi in cui si trattino i pazienti con i soli farmaci, la prescrizione è sempre preceduta da una valutazione molto approfondita, durante la quale si stabilisce comunque una relazione e si forniscono elementi di supporto e psicoeducazione. In molti casi, si decide anche di combinare la terapia farmacologica con una psicoterapia.

Esistono molte psicoterapie e, come i farmaci, possono essere diversamente efficaci a seconda dei sintomi e delle loro cause. Ad esempio, quella cognitivo-comportamentale, agisce sia a livello cognitivo (sui pensieri distorti ed eccessivamente pessimistici) che a livello comportamentale, correggendo i comportamenti che sono sia la causa che l’effetto della depressione”.

La terapia farmacologica

Per quanto riguarda la terapia farmacologica, la scelta dei farmaci è ampia e dunque l’obiettivo è somministrare quelli che possano rimediare meglio agli specifici sintomi con cui la depressione si manifesta. L’appiattimento affettivo può essere uno dei sintomi di depressione, ma non di rado è anche un effetto collaterale dei farmaci prescritti per correggere gli altri sintomi di questa malattia.

“Capita, infatti, che l’inizio o la prosecuzione della terapia farmacologica coincida o vada ad aggravare l’appiattimento emotivo, ovvero quella sensazione di essere sotto un telo di nylon, di avere una specie di corazza che impedisce di avvertire qualunque emozione, brutta o bella che sia, di fronte a stimoli o eventi esterni” chiarisce l’esperto.

Le persone che si trovano in questa situazione raccontano di una grave incapacità di gioire, di interessarsi a qualcosa, di reagire a quanto di bello o di brutto accade: tale sensazione viene sovente descritta come di anestesia, cioè un’incapacità di provare emozioni positive o negative. In questi casi, infatti, oltre a perdere le emozioni positive come la gioia, l’entusiasmo, la soddisfazione, non si percepiscono più nemmeno sentimenti come la preoccupazione, la compassione, il dolore o la pietà.

“Tutta questa sequela può verificarsi in corso di terapia antidepressiva. Una delle cause, può derivare dal fatto che alcuni antidepressivi e ansiolitici, aumentano la concentrazione di serotonina e riescono così a correggere sintomi come ansia, irritabilità e umore depresso- chiarisce l’esperto – ma l’aumento di serotonina può anche determinare la riduzione del rilascio di altri neurotrasmettitori come noradrenalina e dopamina”.

L’importanza di neurotrasmettitori

“Questi ultimi – prosegue il professore – sono importanti per l’energia, lo stato di allerta, la capacità di provare piacere e emozioni, di avere una motivazione ben precisa, perciò la loro riduzione può interferire con la capacità progettuale e quella di reagire affettivamente, in modo appropriato, a stimoli positivi o negativi. Ecco perché alcuni dei farmaci che aumentano la serotonina e diminuiscono noradrenalina e dopamina possono determinare un appiattimento affettivo”.

È auspicabile, continua il professor Fagiolini, che “in questi casi lo psichiatra si orienti verso l’aggiustamento delle dosi dei farmaci prescritti, visto che alcuni farmaci antidepressivi potenziano solo la serotonina a bassi dosaggi ma, a dosaggi più alti, riescono a potenziare anche noradrenalina e dopamina, oppure prescrivano farmaci antidepressivi che agiscono meno sui meccanismi serotoninergici che contribuiscono all’appiattimento affettivo. Ad esempio, sertralina aumenta i livelli di serotonina in tutti i pazienti e a tutte le dosi alle quali si prescrive. Tuttavia, l’effetto sui livelli di noradrenalina o dopamina cambia a seconda del dosaggio somministrato. A basse dosi, sertralina aumenta la serotonina e diminuisce noradrenalina e dopamina (e questo può portare a appiattimento affettivo ma può anche aiutare a evitare un’attivazione eccessiva, ad esempio in pazienti con ansia). Con alte dosi, aumenta i livelli di dopamina (e questo può correggere l’appiattimento affettivo). Una cosa simile avviene per venlafaxina e paroxetina”.

Antidepressivi multimodali

“Vortioxetina è un antidepressivo che agisce sia sul blocco del trasportatore della serotonina che, direttamente, su specifici recettori. In questo modo, il farmaco aumenta la serotonina ma, allo stesso tempo blocca anche il recettore 5HT3, ovvero il recettore responsabile della riduzione della noradrenalina e dopamina indotta dalla serotonina quando questo recettore non sia bloccato. Dunque, nella maggior parte dei casi vortioxetine non causa e, anzi, corregge l’appiattimento affettivo. Esistono poi altri farmaci non multimodali, ad esempio Bupropione, che non agiscono in modo rilevante sulla serotonina.- continua a spiegare il docente, che aggiunge – qualunque cambiamento nel dosaggio o tipo di farmaco, in ogni caso, deve essere deciso in accordo con il medico che lo prescrive. Cambiare o sospendere un farmaco è spesso più complesso che prescriverlo. Così come nessun paziente si prescriverebbe un farmaco da solo, a maggior ragione nessuno dovrebbe interromperlo o sospenderlo da solo”.

Fare un discorso generalizzato e valido per tutti non è possibile come sottolinea il professor Fagiolini: “È dunque necessario che, per ogni paziente, sia fatta una valutazione personalizzata, individualizzata, da parte del medico che prescrive il farmaco, che saprà decidere al meglio e insieme al paziente, se e quando fare un cambio di dose o di terapia, valutando bene i potenziali benefici, ma anche i potenziali rischi, come quelli di perdere i benefici ottenuti fino a quel momento, ad esempio nelle persone con molta ansia o agitazione, per le quali, nelle prime fasi del trattamento, la riduzione dei livelli di noradrenalina o dopamina può essere più utile che dannosa”.

Valutare il quadro generale del paziente

“In tutti casi, dunque, è necessaria un’attenta valutazione da parte dello psichiatra, anche per distinguere quadri che possono richiedere terapie completamente diverse da altri. Ad esempio, la terapia di un paziente depresso con disturbo bipolare (ovvero un paziente che in passato, anche se molti anni prima, abbia avuto sintomi come euforia, irritabilità, rabbia, agitazione, difficoltà a controllare gli impulsi, aumento delle energie, ridotto bisogno di sonno, ecc.) è diversa da quella di un paziente altrettanto depresso che sia invece affetto da un disturbo depressivo maggiore, così come la terapia di un paziente con depressione, ansia e agitazione, è molto diversa da quella di un paziente depresso con assenza di energia, rallentamento psicomotorio e ipersonnia, anche nei casi in cui la diagnosi sia la stessa (ad esempio, disturbo depressivo maggiore). E così via”.

Solo farmaci?

Ma la sola terapia farmacologica basta? “Nella maggior parte dei casi, inclusi quelli in cui l’appiattimento affettivo sia un sintomo dominante, è opportuno valutare sempre la possibilità di iniziare anche una buona psicoterapia. Se la psicoterapia funziona bene, infatti, si ottengono modifiche nel sistema dei neurotrasmettitori simili a quelle che si vedono con un farmaco che funziona bene” dice il professor Fagiolini. E conclude: “La depressione è una malattia organica, sistemica, ma anche interventi ‘esterni’ (come una psicoterapia) possono correggere questi problemi organici. In tutti i casi di depressione, tuttavia, è opportuno avere subito la valutazione di un medico (che, tra l’altro, può escludere che i sintomi derivino da un’altra malattia fisica) e, in linea di massima, le forme più gravi richiedono una terapia farmacologica. La quale è spesso sinergica (e non necessariamente alternativa) a una psicoterapia, che può essere fatta sia da un medico psicoterapeuta che da uno psicologo”.

La motivazione: come e dove trovarla

Amici e familiari di una persona depressa con appiattimento emotivo possono credere che basti la vicinanza per ridare motivazione. “Sicuramente l’affetto e poter contare su una solida rete amicale aiuta a sentirsi meno soli e quindi può giovare alla salute di queste persone – riflette Angelica Moè, professoressa di Psicologia della Motivazione e delle Emozioni presso il Dipartimento di Psicologia Generale dell’Università di Padova – Tuttavia è bene cercare di stimolare anche risorse interne che portino a volere stare meglio e a interpretare situazioni ed eventi in modo più propositivo e motivato”.

In che modo, quindi, si possono risollevare gli aspetti motivazionali della persona? “Innanzitutto è importante facilitare la soddisfazione degli imprescindibili bisogni di sentirsi competenti e autonomi, capiti e valorizzati cioè autodeterminati, secondo il modello proposto da Ryan e Deci. Questo si può avverare favorendo la percezione di un ambiente supportivo e non giudicante e rafforzando il saper fare, cioè l’auto-efficacia” – spiega la professoressa Moè, che chiarisce: “Poi andrebbe stimolata la seconda componente del processo motivazionale ovvero il ‘volerlo fare’. Di fronte ad una pervasiva perdita di senso si potrebbe ripartire da qualcosa che ancora piace, ha significato e fa stare bene, per poi muoversi gradualmente verso attività percepite come meno affrontabili, distanti o addirittura minacciose o paurose. In parallelo a questo supporto sul saper fare e voler fare si potrebbero rafforzare alcune importanti convinzioni”.

Cambiare e migliorare: “dispiegare le ali”

“Credere in diversa misura è la proposta di Carol Dweck. Poter cambiare e migliorare e quindi anche di essere più o meno capaci di uscire da situazioni di stallo e difficoltà. E’ evidente che il credere di poter cambiare facilita il processo. Di nuovo è l’ambiente sociale a fare la differenza. Sono gli altri che pensando che possiamo cambiare consentono spazi per ‘dispiegare le proprie ali’ e rimettersi a volare. E sono sempre gli altri a farci sentire competenti e che le cose che facciamo sono importanti e significative”.

L’importanza di trovare un ambiente favorevole

Per tornare a stare bene, è fondamentale anche avere un ambiente circostante accogliente. “Pertanto, a fianco di un accompagnamento individuale principalmente sul piano affettivo, affiancherei ove possibile un lavoro sul contesto sociale che dovrebbe favorire l’incrementalità, i valori e risultare non giudicante né protettivo con il rischio di diventare intrusivo di fatto impedendo di provare quella soddisfazione che può nascere solo a fronte della personale riuscita. – In sintesi, la motivazione cresce in sé ed è una spinta interna, tuttavia tale processo di sviluppo è particolarmente influenzato dall’ambiente sia oggettivo che percepito. Il supporto sul singolo potrebbe infatti anche orientarsi sui pensieri disfunzionali e le rappresentazioni di sé che possono flettere le percezioni di un ambiente sostanzialmente favorevole, ma non percepito come tale”.

Trattiamo noi stessi come ci sentiamo trattati dagli altri

“È  un circolo: ci trattiamo come ci siamo sentiti trattare. – conclude la professoressa Moe – . Lo si spezza sentendoci considerati, liberi di essere noi stessi, capaci, autonomi e in relazione potendo così interiorizzare questo modo più valorizzante e meno schiacciante di vivere la relazione con noi stessi e affacciarsi sul mondo: con sguardi accoglienti e chiari, meno giudicanti, ostacolanti, intrusivi, più valorizzanti e liberi. Non è sempre un processo semplice da mettere in atto. Come sottolinea Reeve è importante che l’ambiente sociale possa rispettare i tempi, proporre attività e situazioni affrontabili, aiutare a (ri)scoprire significati e rimanere aperto agli sfoghi affettivi, consentendo alle emozioni di svolgere il loro ruolo di farci meglio capire la nostra evoluzione psichica e ritrovare e dispiegare la parte migliore di noi stessi, in processi continui e ricorsi, in una spirale di continua crescita”.



www.repubblica.it 2024-03-07 02:40:07

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