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Salute mentale, qui restituiamo alle persone la voglia di sognare

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“Cos’è il disagio di sentirsi guardati male? Per molti pazienti con malattie mentali spesso è una sensazione interiore legata alla patologia. Ma molto spesso è legata anche alla società. Anzi, forse più alla società che alla patologia”. A dirlo è Carlotta Palazzo, psichiatra e responsabile del Centro Psico Sociale (CPS)-4 di Milano – ASST Fatebenefratelli-Sacco che segue 1100 pazienti. Oggi, in occasione del centenario della nascita di Franco Basaglia, il promotore della riforma psichiatrica in Italia, Palazzo ci racconta quali sono le sfide della cura della salute mentale sul territorio.

 

Dottoressa Palazzo, perché sono importanti i CPS?

“La legge Basaglia ha avuto l’enorme vantaggio non solo di chiudere gli istituti manicomiali, ma anche di passare il messaggio che il luogo dove si cura un malato è importante. Se ci troviamo in un posto chiuso brutto e spoglio, non possiamo che identificarci con esso. Anche per questo i manicomi non erano funzionali. Un altro concetto che ha introdotto è la territorialità: se un paziente ha bisogno di cure psichiatriche non può fare 20 chilometri per riceverle, ma deve poterle trovare nel suo quartiere. Negli anni si è evoluto anche il concetto di salute mentale, che non è più solo l’assenza di sintomi, ma è comprende anche l’integrazione nella società, che è quello che cerchiamo di fare nei CPS”.

 

Cosa serve per favorire l’integrazione?

“Bisogna innanzitutto capire quello che i pazienti vogliono: che sia una migliore assistenza, un impiego o l’autonomia. E per farlo dobbiamo cambiare prospettiva, lavorare in modo multidisciplinare e non considerare solo l’aspetto terapeutico. Abbiamo bisogno di assistenti sociali che si occupino dell’impiego e della ri-scolarizzazione. Purtroppo, le patologie psichiatriche esordiscono in un’età estremamente giovanile e molto spesso le persone colpite interrompono i percorsi scolastici”.

 

Quindi serve una presa in carico a 360 gradi?

“Sì. Un concetto che trovo molto bello è quello della residenza emotiva. Le periferie delle città sono piene di solitudine, ma la solitudine più grande la si ha quando non si sa dove ‘abita il proprio cuore’, per esempio quando si percepisce la propria abitazione come un luogo faticoso in cui stare. Ecco, per molti dei nostri pazienti noi siamo una residenza emotiva: un posto in cui si può venire a delirare, ma anche a costruire. Vogliamo che sentano il CPS come una casa, non come un luogo di contenimento come era il manicomio. Da qui la necessità di migliorare gli ambienti: per questo motivo abbiamo aderito al progetto ‘Coloriamo i luoghi della salute mentale’, che prevedere la riqualificazione degli spazi”.

Cosa ha significato per voi e i vostri pazienti?

“Colgo un parallelismo tra la plasticità dei nuovi ambienti e l’idea di essere plastici al cambiamento. Il CPS non è uno spazio solo per i pazienti o solo per gli operatori, ma per tutti. Inoltre, le immagini dipinte sulle pareti provengono dal concorso People in Mind (https://www.concorsopeopleinmind.it/), a cui tutti hanno potuto partecipare: pazienti, caregiver, operatori. All’inizio alcuni pazienti hanno guardato con timore i nuovi spazi, ma anche lavorare sull’accettazione del cambiamento fa parte del processo di cura”.

 

Oltre alle opere, sui muri della sala di aspetto ci sono anche delle frasi…

“Non sono degli slogan, ma messaggi per i pazienti in quelli che potrebbero essere i 20 minuti più difficili della loro vita, prima di fare un colloquio psichiatrico. Abbiamo scelto messaggi di accoglimento e di apertura per far capire loro che il loro disagio è ascoltato, che non devono farcela da soli, come invece la società attuale spesso suggerisce. Che noi siamo qui per loro e che in qualche modo si troverà una soluzione”.

 

Il murale alle sue spalle raffigura un abbraccio, perché avete scelto quest’ opera?

“La prima cosa che si perde nella malattia mentale è la capacità di desiderare, di pensare al futuro. Chi ha una malattia mentale spesso spende nella resistenza ai sintomi tutte le sue energie: non immagina più, non sogna più. Nel 2024 non si può pensare che ci siano pazienti giovani che non possono sperare di lavorare, di avere una casa, o di vivere autonomamente. Quest’opera rappresenta quindi proprio quello che cerchiamo di fare qui: proteggere i loro sogni. E fare in modo che il loro cuore si senta in un posto valido”.



www.repubblica.it 2024-03-11 09:08:16

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