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Neuroplasticità: ecco perché capirla ci aiuterà a curare le demenze

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La chiave per combattere le demenze c’è, ma è ancora ben nascosta nel nostro cervello. Gli scienziati stanno lavorando per comprendere meglio le cause sottostanti delle malattie neurodegenerative e sviluppare strategie efficaci per prevenirle o trattarle. Se si considera che ogni 3 secondi avviene una nuova diagnosi, e che solo in Europa queste malattie ci costano 800 miliardi all’anno, è evidente l’urgenza. Ma anche se ancora non abbiamo trovato una soluzione, la buona notizia è che almeno ora sappiamo dove cercarla.

Andando infatti a ritroso nel processo di invecchiamento fisiologico e patologico, si è arrivati alla centralità di un meccanismo chiave che influisce sull’intera efficienza del sistema nervoso centrale, ma ancora in parte da decifrare: la neuroplasticità.

I neuroni cambiano forma per tutta la vita

Sappiamo molte cose sulla capacità del cervello di adattarsi e cambiare, ma “alcune ancora rimangono sconosciute. Prima si pensava che la plasticità del cervello fosse a tempo determinato e che solo i giovani avessero la capacità di evolvere. Ora invece abbiamo la certezza che i neuroni cambiano forma per tutta la vita, che la plasticità basta allenarla per conservarla nel tempo e che il nucleo è in grado di inviare dei pacchetti di molecole per modificare le sinapsi e la forma stessa del tessuto, anche se non sappiamo come fa. Riuscire quindi a comprendere, e poi a nostra volta a regolare con dei farmaci questo processo che le malattie neurodegenerative compromettono, potrebbe essere la svolta”.

A parlare è la professoressa Monica DiLuca, direttrice del dipartimento di Scienze farmacologiche e biomolecolari della Statale di Milano che da anni studia la plasticità sinaptica in condizioni sia fisiologiche che patologiche.

L’applicazione della ricerca per la cura dell’Alzheimer

Il laboratorio della professoressa DiLuca vuole applicare i risultati delle ricerche di base sui neuroni alla cura di malattie neurodegenerative come l’Alzheimer, e al momento si sta focalizzando sulla comunicazione inversa che governa la plasticità a livello di sinapsi specifiche.

Il suo studio “Stone – Soma to synapse” è stato finanziato dal Fondo italiano per la scienza del Mur, lei ha appena ricevuto il “Paoletti Award for excellence in Pharmacology“, premio alla carriera assegnatole dalla Federation of European Pharmacological Societies dedicato proprio al suo mentore e il 13 marzo sarà ospite del Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi dell’Università di Torino in occasione della Settimana del cervello per la Ferdinando Rossi Lecture on Neuroscience sulle ultime frontiere della ricerca sull’Alzheimer.

“I nostri circuiti neuronali e le sinapsi sono in grado di operare delle modificazioni di ogni singolo contatto, rispondendo in modo diverso e con efficacia differente a seconda dello stimolo che ricevono. Questa è la plasticità che ci permette di adattarci all’ambiente circostante, di imparare a far cose, di memorizzare e anche orientarci nello spazio. E quando queste capacità vengono meno, sappiamo che è iniziata la via di non ritorno”.

La riserva neuronale e l’invecchiamento

Tutti noi possiamo infatti contare su una riserva neuronale che compensa gli effetti dell’invecchiamento, che è un processo assolutamente fisiologico. Ma quando la perdita va oltre, c’è poco da fare: si manifesta la demenza, che può essere “ritardata” solo se diagnosticata precocemente.

“Sono da sempre stata estremamente interessata a comprendere i meccanismi cellulari che regolano la nostra capacità di apprendere e memorizzare informazioni, che sono alla base del nostro sistema nervoso centrale, permettendoci di rispondere agli stimoli e adattarci all’ambiente circostante. Io penso che nella plasticità dei neuroni possa esserci una buona strategia di cura perché è ormai riconosciuto che i cambiamenti fisiopatologici iniziano molti anni prima delle manifestazioni cliniche della malattia e lo spettro dell’Alzheimer va da clinicamente asintomatico a gravemente compromesso”.

Non esiste la pillola magica

“Purtroppo non esisterà mai una pillola magica che da sola sarà in grado di curarci – prosegue la farmacologa – . Quindi, come già avviene nel trattamento dei tumori e delle malattie croniche, anche per le demenze serviranno più azioni, non solo farmacologiche. Prima di tutto saranno essenziali dei protocolli in grado di diagnosticare precocemente e con certezza l’Alzheimer, in modo da iniziare il prima possibile delle terapie in grado di limitare da una parte la formazione di amiloide e dall’altra di promuovere le funzioni delle sinapsi, mantenendo in vita i neuroni”.

Mantenere giovane il cervello

Ma cosa si può fare nell’attesa? “La cosa più importante è mantenere la plasticità il più a lungo possibile, allenandola. Questo è importantissimo ad ogni età e possiamo farlo in tanti modi” consiglia l’esperta. Per mantenerla nel tempo, è importante adottare uno stile di vita sano che includa esercizio fisico regolare, una dieta equilibrata, un buon riposo e sufficiente stimolazione mentale.

“L’apprendimento continuo e l’esposizione a nuove esperienze o attività che sfidano il cervello sono modi efficaci per promuovere la plasticità. È stato appurato che anche l’attività fisica quotidiana aiuta anche questo meccanismo cerebrale, attivando meccanismi di comunicazioni periferici e stimolando l’orientamento. Poi hobby come il ballo, o qualunque altra cosa che ci costringa a metterci alla prova e ad adattarci agli stimoli esterni, sono un valido aiuto – conclude DiLuca – . Sono proprio le novità ad accendere il cervello, così come le interazioni: avere un network sociale è fondamentale per contrastare invecchiamento del cervello mentre l’isolamento colpisce tantissimo la plasticità, accelerando i sintomi”.



www.repubblica.it 2024-03-12 04:22:11

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