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Alzheimer, identificato un nuovo bersaglio terapeutico della malattia

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È stato identificato un nuovo potenziale bersaglio per il trattamento della malattia di Alzheimer: il PDE4B. A scoprirlo i ricercatori dell’Università di Leeds e dell’Università di Lancaster, nel Regno Unito.

I risultati dello studio, riportati su Neuropsychopharmacology, aprono nuove strade per la lotta alla malattia di Alzheimer, che è la principale causa di demenza e disabilità in età avanzata, nel mondo. Poichè il numero di persone a cui viene diagnosticata la malattia di Alzheimer è in notevole crescita, si fa urgente la necessità di nuovi trattamenti volti a migliorare la qualità della vita delle persone che ne sono affette.

Il ruolo dell’enzima PDE4B

Il PDE4B è un enzima che, all’interno delle cellule, scompone una molecola, nota come AMP ciclico, che regola una serie di processi cellulari. Sulla base di uno studio australiano che ha identificato il gene PDE4B come fattore di rischio per lo sviluppo della malattia di Alzheimer, il gruppo di ricerca britannico ha incentrato la propria indagine nel comprendere se la riduzione dell’attività del PDE4B potesse proteggere dall’Alzheimer e, di conseguenza, rappresentare un valido approccio terapeutico.

A tal fine, gli scienziati hanno introdotto un gene per la riduzione dell’attività della PDE4B in un modello murino affetto da malattia di Alzheimer, con placche amiloidi nel cervello, una caratteristica patologica tipica della malattia. I ricercatori hanno osservato che i topi affetti da Alzheimer mostravano deficit di memoria nei test del labirinto, ma la memoria non era compromessa nei topi affetti da Alzheimer con attività PDE4B geneticamente ridotta. Utilizzando l’imaging cerebrale funzionale, la squadra di ricercatori ha scoperto che il metabolismo del glucosio, la principale fonte di energia del cervello, era compromesso nei topi con Alzheimer, come nei pazienti affetti dalla malattia. Tuttavia, i topi con attività PDE4B geneticamente ridotta mostravano livelli sani di metabolismo del glucosio nel cervello.

L’esperimento sui topi

Per comprendere i meccanismi coinvolti, i ricercatori hanno poi esaminato i livelli di espressione genica e proteica nel cervello. Gli scienziati hanno individuato un aumento dell’infiammazione nel cervello dei topi affetti da Alzheimer, come quello riscontrato nei pazienti affetti dalla malattia, ma l’infiammazione era minore nei topi affetti da Alzheimer con attività PDE4B geneticamente ridotta.

Effetti simili sono stati osservati per una serie di altre proteine coinvolte nella patologia dell’Alzheimer. Nel complesso, i dati suggeriscono che la riduzione dell’attività della PDE4B potrebbe essere un possibile approccio per il trattamento della malattia di Alzheimer, anche se sono necessarie ulteriori ricerche per convalidare l’uso di farmaci che hanno come bersaglio l’enzima.

Non solo Alzheimer

“La riduzione dell’attività dell’enzima PDE4B ha avuto un profondo effetto protettivo sulla memoria e sul metabolismo del glucosio nel modello murino affetto da Alzheimer, nonostante questi topi non mostrassero alcuna diminuzione del numero di placche amiloidi nel cervello”, ha detto Steven Clapcote, ricercatore principale dell’Università di Leeds. “Ciò – ha continuato Clapcote – solleva la prospettiva che la riduzione dell’attività della PDE4B possa proteggere dal deterioramento cognitivo non solo nella malattia di Alzheimer, ma anche in altre forme di demenza, come la malattia di Huntington”.

“Questi risultati offrono una speranza concreta per lo sviluppo di nuovi trattamenti a beneficio dei pazienti affetti dalla malattia di Alzheimer in futuro”, ha dichiarato Neil Dawson, dell’Università di Lancaster e coautore del lavoro. “È stato interessante scoprire che la riduzione dell’attività della PDE4B di appena il 27% può salvare drasticamente la memoria, la funzione cerebrale e l’infiammazione nei topi affetti dalla malattia”, ha proseguito Dawson. “La prossima fase consiste nel verificare se i farmaci che inibiscono la PDE4B hanno effetti benefici simili nel modello murino affetto da Alzheimer, così da testare la loro potenziale efficacia nella malattia”, ha concluso Dawson.



www.repubblica.it 2024-03-27 12:39:25

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