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Tumore alla prostata: nei prossimi 20 anni i casi raddoppieranno

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Nel 2040 gli uomini affetti da cancro alla prostata saranno 2,9 milioni, il doppio di quelli registrati nel 2020. A rivelarlo un’analisi condotta dalla Commissione Lancet sul tumore alla prostata che ha stimato che nel prossimo ventennio i casi raddoppieranno rispetto agli 1,4 milioni registrati nel 2020. Anche i decessi annuali a livello globale cresceranno dell’85%, passando da 375 mila a 700 mila nel 2040. All’interno del panorama delineato da questi dati allarmanti, la situazione in Italia risulta però positiva e le prospettive per i 20 anni a venire sono buone.

“Con diagnosi precoce e nuove strategie terapeutiche e farmacologiche siamo in grado di trattare il tumore con successo e garantire una migliore qualità della vita con una rapida ripresa funzionale”, rassicura Tommaso Cai, direttore dell’U.O. di Urologia dell’Ospedale di Trento e segretario della Società italiana di andrologia (Sia).

L’Italia

Dall’analisi Lancet, l’incidenza del tumore alla prostata in Italia appare molto elevata e si attesta tra le più alte dei Paesi del Sud ed Est Europa, insieme a Spagna e Repubblica Ceca. Ma ciò non deve essere interpretato come un dato preoccupante. “La diagnosi sempre più precoce ed estesa, pazienti più informati e consapevoli delle visite a cui devono sottoporsi, ma anche la diffusione di risonanza magnetica e di biopsie con tecniche mirate, chiaramente aumentano molto i dati sull’incidenza”, afferma Cai, permettendo di diagnosticare tumori che, per loro natura, hanno una grande diffusione. Tutto ciò determina però anche una drastica riduzione della mortalità che infatti risulta essere tra le più basse registrate a livello globale e ancora in decrescita.

Una malattia (quasi) inevitabile

“Quello alla prostata è un tumore che risente molto dell’età e con l’invecchiamento della popolazione e l’aumento dell’aspettativa di vita è naturale aspettarsi un incremento dell’incidenza – sottolinea il segretario Sia -. Si tratta di una malattia dell’anzianità e, infatti, anche secondo i dati che emergono dalle autopsie, moltissimi ottantenni presentano un tumore alla prostata”.

Oltre all’età, ci sono però anche fattori di rischio genetici, legati alla familiarità. “Avere due persone nella stessa linea genetica, cioè il papà e lo zio paterno, o il papà e il nonno con tumore alla prostata, rappresenta un grande elemento di rischio, come pure l’essere portatori di una mutazione nel gene Brca2”, aggiunge Cai.

Ad entrare in gioco non è, però, solamente la genetica. “Il tumore alla prostata risente anche di fattori modificabili, su cui si può intervenire – puntualizza Cai -, come lo stile di vita, l’obesità, l’abitudine al fumo e l’alimentazione. Per capire l’associazione tra questo tumore e dieta è sufficiente vedere come nei paesi asiatici il cancro alla prostata abbia un’incidenza bassissima proprio per la cucina ad alto contenuto di soia e di antiossidanti come il ginseng”.

Fare prevenzione 

I dati positivi del nostro Paese non devono però far abbassare l’attenzione su questo tumore, è infatti importante continuare a fare prevenzione e aumentare la consapevolezza. “Purtroppo, rispetto al passato, in mancanza della visita di leva – spiega l’esperto -, i ragazzi a 18 anni non si sottopongono più a visite di controllo e perdono di vista questa patologia. Salendo poi con l’età, verso i 45 anni, la visita urologica andrebbe fatta assolutamente insieme alla valutazione del Psa, cioè dei livelli della proteina chiamata antigene prostatico specifico, tramite un esame del sangue, specialmente nelle persone ad alto rischio”.

Il paradosso del test Psa

Bisogna però stare attenti al “cattivo utilizzo del Psa”, sottolinea Cai. “Molto spesso, infatti, i pazienti si sottopongono solamente a questo test senza la visita urologica. Ciò rappresenta un errore dal momento che circa un quarto dei tumori si manifesta con un Psa nei limiti della norma, ma con un nodulo alla prostata, causando una vera e propria ‘perdita’ del paziente nel processo diagnostico. Un altro errore diffuso – continua -, è quello di usare il test del Psa in pazienti con età avanzata, sopra i 78 anni, in quanto può portare a trattamenti non necessari che potrebbero peggiorarne la qualità della vita senza effettivi benefici. Infine, l’altro aspetto di cui tener conto è che il Psa non costituisce un marcatore specifico del tumore alla prostata, ma indica solamente che questa è in uno stato non ottimale di salute e non permette di identificare quale sia l’aggressività del cancro”, spiega l’esperto.

Una buona qualità della vita

L’aspetto fondamentale da cui non si può prescindere, rimane, in ogni caso, quello del mantenimento della migliore qualità possibile della vita del paziente, “il trattamento deve essere finalizzato proprio a garantire ciò, ancor più nel caso di pazienti giovani. Come ci hanno insegnato i colleghi scandinavi – spiega Cai – un passo in questa direzione è rappresentato dalla sorveglianza attiva del tumore tramite la quale il paziente viene monitorato nel tempo posticipando il più possibile il trattamento senza intervenire radicalmente”. 

Migliorarsi per il futuro

“Un altro aspetto prioritario nella cura sempre più efficace dei pazienti, ma purtroppo ancora troppo poco diffuso in Italia, è quello che riguarda la creazione di prostate unit. Il tumore alla prostata ha una natura complessa che necessita di un trattamento multi-specialistico sotto la guida dell’urologo che deve comportarsi quasi come un direttore d’orchestra, affiancato dal radioterapista e dall’oncologo – sottolinea Cai -. Le sfide per il futuro sono, quindi, ancora molte, però, sicuramente, ad oggi l’Italia sta affrontando il problema con ottimi risultati”.



www.repubblica.it 2024-04-05 10:09:19

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