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Tumore al seno, quale screening per le persone transgender?

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Sebbene da qualche anno anche in Italia l’attenzione verso la considerazione e i diritti delle persone transgender sia aumentata, nell’ambito dell’assistenza sanitaria questa fascia di popolazione (che rappresenta lo 0,5-1% della popolazione totale secondo stime dell’Istituto Superiore di Sanità) incontra ancora diversi ostacoli, sia nell’accesso che nell’utilizzo di servizi di prevenzione e cura. Uno di questi è lo screening del tumore al seno. Nella maggior parte dei casi, il disagio di trovarsi di fronte a medici e operatori sanitari poco preparati ad accogliere chi ha un’identità di genere diversa dal sesso determinato alla nascita, le problematiche legate a un’anagrafica sanitaria non inclusiva, e una scarsa consapevolezza sui tumori e i fattori di rischio non favoriscono l’adesione ai programmi di screening, rendendo difficile la diagnosi precoce, e più complesso il percorso di cura.

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Oltreoceano non va molto meglio: attualmente negli Usa solo tre società scientifiche hanno redatto raccomandazioni per lo screening del seno nella popolazione transgender: Fenway Health, Endocrine Society Clinical Practice Guideline e lo UCSF Center of Excellence for Transgender Health. Si aggiunge l’ACR (American College of Radiology), che fornisce raccomandazioni sull’adeguatezza di varie modalità di imaging per lo screening, come ci riporta una recente revisione degli studi pubblicata su Mayo Clinic Proceedings. Molte importanti organizzazioni, però, ancora non dispongono di linee guida specifiche, tra cui la US Preventive Services Task Force, l’American Cancer Society, la Breast Cancer Research Foundation. E la letteratura sull’incidenza di cancro al seno tra gli individui transgender è scarsa.

I fattori di rischio del tumore al seno

“Oltre ai fattori di rischio a cui è esposta indistintamente tutta la popolazione (come predisposizione genetica, fumo, abuso di alcol e dieta ricca di grassi saturi e sedentarietà, ndr.), c’è da considerare il fattore della terapia ormonale che le persone transgender, sebbene non tutte, decidono di assumere per allineare il proprio aspetto fisico alla propria identità di genere”, spiega a Salute Seno Diego Iemmi, consigliere del comitato di coordinamento GISMa (Gruppo italiano screening mammografico).

In particolare, nel percorso di transizione MtoF (da maschile a femminile): “Se da un lato l’assunzione di estrogeni è riconosciuta come un fattore di rischio per l’insorgenza del tumore del seno, dall’altro le evidenze scientifiche ad oggi disponibili, ottenute in seguito allo studio di gruppi di persone transgender numericamente troppo piccoli ed estremamente eterogenei, non sono così solide per poter affermare che tali terapie siano associate a una probabilità più alta di sviluppare la malattia in questa popolazione. Di sicuro però – continua l’esperto – è un fattore di rischio che va monitorato, perché la ghiandola mammaria viene comunque sollecitata. Come va tenuto sotto controllo anche negli uomini transgender (da femminile a maschile, ndr.) che hanno deciso di effettuare la mastectomia visto che, nonostante l’operazione, una piccola porzione di ghiandola mammaria può rimanere. E anche in coloro che, pur non avendo eseguito questo intervento, stanno assumendo ormoni maschili”.

Le raccomandazioni 

Di fronte a tali fattori di rischio, la raccomandazione sia per le donne che per gli uomini transgender è dunque di effettuare la mammografia di screening con le stesse tempistiche delle donne cisgender (che hanno un’identità di genere in linea con il sesso biologico): ovvero mammografia ogni 2 anni nella fascia di età compresa tra i 50 ai 69 anni, estesa, in alcune regioni, dai 45 ai 74 anni (con mammografia annuale tra i 45 e i 49 anni).

Gli ostacoli

Ma se da un lato la prevenzione è importante per favorire diagnosi precoci, dall’altro, come detto, per le persone transgender esistono delle difficoltà oggettive. Prima di tutto i Lea, i Livelli Essenziali di Assistenza, sono strutturati sulla base del sesso anagrafico: il che significa che se le donne transgender, che hanno già ottenuto la rettifica anagrafica, sono invitate ad aderire al programma con la consueta lettera spedita a domicilio, gli uomini transgender, che, allo stesso modo, risultano avere in carta di identità il genere maschile, non vengono invece più chiamati.

“Dunque, essendo ormai esclusi dagli screening organizzati – continua Iemmi – è fondamentale che questi ultimi siano consapevoli dell’importanza della diagnosi precoce, ricordandosi di fare i controlli secondo le tempistiche indicate dalle linee guida nazionali. Un punto, questo, su cui associazioni LGBT territoriali, centri screening e centri specializzati nella transizione di genere dovrebbero lavorare per favorire una maggiore adesione, anche perché molte volte il sottoporsi a controlli di prevenzione per tumori legati al sesso di origine viene percepito come una sorta di passo indietro nel percorso di transizione. Allo stesso modo si dovrebbe anche lavorare per eliminare quei blocchi di tipo amministrativo dovuti a un’anagrafica che non tiene conto dell’identità di genere”.

Altrettanto difficile è partecipare allo screening per coloro che non hanno ancora ottenuto la rettifica anagrafica e per i quali si utilizzano le procedure di convocazione valide per il genere determinato alla nascita. “In questo modo – sottolinea l’esperto – si viene a creare una discordanza tra dati indicati nei documenti e aspetto fisico che non favorisce l’adesione al programma: il divario tra quello che comunica la lettera di invito, ricevuta per il sesso determinato alla nascita, e la propria identità è infatti spesso all’origine del rifiuto di presentarsi nei centri screening”.

Operatori sanitari non sempre preparati ad interagire con persone transgender

Altre problematiche riguardano invece l’interazione con gli operatori sanitari, non sempre preparati in modo adeguato ad accogliere persone e pazienti transgender per quel che concerne i loro bisogni sanitari, e sull’uso di un linguaggio con terminologie e pronomi appropriati. “Il primo accesso allo screening è quello in cui ci si gioca tutta la fiducia della persona e tutto il percorso che verrà dopo – spiega ancora Iemmi – Se già in questo primo step ci si sente a disagio e si percepisce un atteggiamento giudicante, difficilmente ci si ripresenterà al prossimo appuntamento”. Un percorso in ospedale più accogliente e meno discriminatorio può dunque fare la differenza. E può farla ancora di più per coloro a cui viene diagnosticato il tumore e che per questo, talvolta, si trovano a dover sospendere la terapia ormonale e a vivere una situazione di estrema fragilità: alla preoccupazione per la malattia e le cure si aggiunge infatti quella di interrompere il percorso che fino a quel momento aveva permesso di vivere appieno l’identità di genere a cui si sente di appartenere. “È dunque quanto mai necessario tenere conto di come spesso le persone transgender non si avvicinino, o si avvicinino poco, agli ambienti sanitari per il forte timore di ricevere un trattamento iniquo – conclude l’esperto – e come, per questo, sia importante che medici e operatori aumentino le competenze in questo ambito, per sentirsi più a proprio agio nell’interazione con loro e creare un ambiente inclusivo”.

Per migliorare l’assistenza di questa fascia di popolazione, l’Istituto Superiore di Sanità negli ultimi anni sta portando avanti progetti di formazione specifica per gli operatori sanitari e iniziative di informazione al cittadino. Tra queste ultime, c’è infotrans.it, un portale istituzionale dedicato al benessere e alla salute delle persone transgender, in cui si affronta anche il tema della prevenzione e dello screening del tumore al seno.



www.repubblica.it 2024-05-31 14:39:27

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