Autismo, il rugby aiuta bambini e ragazzi
TAKIWATANGA. Ossia “nel suo tempo e nel suo spazio”. Il termine con cui nella lingua maori viene definito il disturbo dello spettro autistico implica un importante spostamento di prospettiva. Perché equivale a dire che la persona che vive questa condizione non ci sta ignorando, come spesso si pensa, ma sta semplicemente aspettando che troviamo la chiave per comunicare con lei.
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Alla Primavera Rugby di Roma – club fondato nel 1976 con un’anima sociale molto forte che si esprime attraverso l’incubatore di progetti Primavera Cares – il termine takiwatanga ha assunto poi un valore speciale. Per il legame tra cultura maori e rugby, naturalmente, ma soprattutto perché dal 2012 Primavera Cares ha avviato il Progetto Rugby-Autismo (info su primaverarugby.it).
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Un’esperienza che in Italia non ha precedenti, perché, se da un lato il rugby è per eccellenza lo sport della socialità e dell’inclusione, dall’altro le sue modalità di gioco sembrano in conflitto con alcune delle caratteristiche associate proprio alla condizione autistica come le difficoltà nel contatto fisico o una particolare reattività agli stimoli sensoriali. Il progetto insomma ha implicazioni importanti sotto svariati punti di vista, come racconta Flavio Serini, rugbista appassionato e oggi responsabile delle iniziative di Primavera Cares.
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Come è nato il progetto?
“Nel 2012 siamo stati contattati da un’associazione di genitori di ragazzi autistici, che ci ha fatto una richiesta spiazzante. Mettere insieme due realtà apparentemente agli antipodi: il rugby, cioè lo sport dell’aggregazione e della socialità, e il disturbo dello spettro autistico associato generalmente a isolamento e ritrosia verso i contatti, sebbene sappiamo che ci sia un’estrema variabilità tra un individuo e l’altro. Sembrava una sfida impossibile. Portare questi ragazzi su un campo, farli interagire, maneggiare il pallone, prendere coscienza del terreno e dar loro delle regole nell’esecuzione degli esercizi. Ma abbiamo accolto la proposta con i valori del rugby, prendendola per così dire di petto, e ne è nato un progetto magnifico che cresce da 9 anni. Attualmente coinvolge circa 45 tra bambini e adolescenti, che una volta alla settimana si trovano nel centro di Sapienza Sport a Tor di Quinto”.
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di
Irma D’Aria
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In che modo avete affrontato questa sfida?
“Un’intera squadra composta da ragazzi autistici crea un’esperienza completamente diversa rispetto a quella di un singolo individuo autistico che prova a inserirsi nell’allenamento di un gruppo di ragazzi neurotipici. Qui l’approccio è che nessuno rimane indietro, e in una condizione come l’autismo nella quale è impossibile tracciare un denominatore tra un caso e l’altro, questo fa la differenza. L’ascolto viene sempre prima di tutto, partendo dal presupposto che ciò che per noi è “normale”, per loro magari non lo è. Questo significa non voler imporre i propri schemi, ma trovare il modo di entrare in connessione con loro. L’obiettivo non è far meta o vincere la partita, ma portare questi ragazzi su un campo a fare attività motoria, proporre gli schemi di base, esercitarli nella presa del pallone e stare sempre attenti a cogliere i segnali per capire dove vogliono portarci. Il bello di questo progetto è che senza volersi mettere nessun cappello di autorevolezza, e creando nel gruppo un legame emotivo molto forte, continua a evolversi. Un passaggio importante è avvenuto nel 2017, quando Primavera Cares è entrata in relazione con l’associazione Una Breccia nel Muro che applica la terapia comportamentale Aba (Applied Behaviour Analysis, ndr) e il progetto, che era partito con over 14, si è esteso ai piccoli nella fascia 6-14”.
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L’età cambia molto le cose?
“Completamente. Perché per quanto i primissimi anni dalla diagnosi siano all’interno della famiglia i più destabilizzanti, con la progressiva accettazione e un percorso di terapia comportamentale diventa invece molto più facile anche dall’esterno costruire un dialogo. Il rugby si inserisce allora in un contesto di approccio generale positivo e di inclusione, a cui aggiunge la pratica sportiva che già di per sé sappiamo essere importante per la salute psicofisica. D’altra parte, la nostra attività è percepita dai bambini come altro rispetto alla terapia, e anche questo è molto importante. Nell’anno della pandemia, infatti, con l’impatto psicologico del lockdown, la chiusura degli spazi in cui potevano fare attività, e le difficoltà della Dad, abbiamo raggiunto il numero massimo di iscritti. Naturalmente la gestione di un gruppo così ampio (ogni sabato pomeriggio, due turni con circa 30 bambini e 15 adolescenti) è diventata abbastanza complessa perché il rapporto con i volontari deve essere di uno a uno, ma questo dà l’idea di quale tipo di passione e dedizione si sia creata nel gruppo che ruota attorno al progetto, per riuscire a garantire con regolarità numeri così alti”.
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Avete altri obiettivi a breve termine?
“Riprendere i contatti che avevamo, alcuni già in fase avanzata e interrotti dal lockdown, con club che in altre città d’Italia vorrebbero avviare un’esperienza come la nostra, ma sono spesso intimoriti dalle difficoltà. Vogliamo dare visibilità all’opportunità che il rugby e lo sport possono offrire a chi vive questa condizione. Per i bambini, poi, andare “in trasferta” con le divise e le borse come una vera squadra da rugby sarà un momento molto importante”.
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www.repubblica.it 2021-08-23 10:09:57