Covid, non solo vaccini: servono anche farmaci per la cura


Non se ne andrà. Di certo non nel breve termine, di sicuro non ovunque. Potremmo, nel migliore dei casi, cercare di tenerlo a bada con ripetute ed estese vaccinazioni di massa. Ma il coronavirus non scomparirà. Se nessuno a oggi è in grado di fare previsioni affidabili su quello che ci aspetta per il prossimo futuro sull’evoluzione di Sars-CoV 2, è opinione condivisa che nella lotta al virus debbano entrare anche gli antivirali, farmaci finora sconosciuti o quasi nelle fila delle armi messe in campo contro la pandemia.

La loro assenza non sorprende gli addetti ai lavori: perché mettere a punto un antivirale è complicato, persino di più di quanto non lo sia sviluppare un vaccino, sotto alcuni aspetti. Tanto che di vaccini ne abbiamo diversi ormai – e il problema è più di forniture che non di efficacia – di antivirali appena uno, il remdesivir, e finora ha mostrato di essere tutt’altro che decisivo nella lotta al Covid-19.

Fare un antivirale è difficile, per motivi diversi. Questione di biologia sì, ma non solo. Lo sviluppo, i test farmacologici e tossicologici cui deve essere sottoposta una molecola, richiedono anni ed enormi investimenti, su cui in pochi sono pronti a scommettere, specialmente nei confronti di infezioni acute come quella da Sars-CoV 2.

Eppure è un investimento che dovrebbe valere la pena fare, perché se nulla dovesse essere pronto in tempo per combattere Covid-19, di virus ce ne sono e ce ne saranno molti altri. E la vera scommessa sulla ricerca di antivirali oggi è di essere più preparati all’arrivo della prossima pandemia, racconta Luca Guidotti, vicedirettore scientifico dell’Irccs Ospedale San Raffaele, dove guida l’unico laboratorio italiano ad alta biosicurezza per animali per la ricerca sul coronavirus e lo sviluppo di antivirali. Ovvero di farmaci che, per definizione, hanno come bersaglio il virus stesso, e che mirano a inibirne la replicazione. Ed è proprio questa una delle ragioni per cui è così difficile farne: “Il virus, essendo incapace di replicarsi autonomamente, sfrutta la cellula per farlo: molti dei target che potrebbero essere presi di mira colpirebbero così anche le nostre cellule”, spiega Guidotti.

“Uccidere i virus è semplice. La parte difficile è mantenere vive le cellule”, scrivevano lapidarie Christine Carson e Rachel Roper, esperte di virus e microrganismi, sulle pagine di The Conversation intervenendo sul tema. “Il vantaggio però è che una molecola potrebbe funzionare contro più virus, come Mers, Sars-CoV 2 o comunque si chiamerà il prossimo coronavirus”, riprende Guidotti.

Perché se è vero che identificare il punto in cui colpire senza far male anche alle cellule è complicato, alcuni di questi target, soprattutto all’interno di alcune famiglie di virus, si somigliano: “Un target per Sars-CoV 2 potrebbe essere una qualsiasi delle sue 29 proteine, ma in primo luogo i ricercatori si sono concentrati sulla polimerasi e sulla proteasi”. Si tratta di due enzimi cruciali per la replicazione del patogeno che, non a caso, sono bersagli degli antivirali già approvati e di quelli in fase più avanzata di sviluppo oggi.

“Il remdesivir, l’unico antivirale approvato contro Covid-19, impedisce la replicazione dell’RNA del virus”, spiega l’esperto. Lo fa perché mima la struttura di uno dei mattoncini che costituisce il materiale genetico del virus, disturbando l’attività della RNA polimerasi virale. Ma non lo fa in maniera specifica: il farmaco è stato sviluppato negli scorsi anni pensando ad altri virus a RNA ed è stato testato contro Ebola e altri coronavirus.

In principio fu ebola

La storia del remdesivir riassume abbastanza bene il modo di procedere della ricerca sugli antivirali, centrata in gran parte sul riposizionamento di molecole esistenti. E scommettendo poi sul loro perfezionamento, in molecole di seconda, terza, quarta generazione. Perché lo sviluppo di un antivirale costa: tempo, anni, e soldi, milioni di euro di investimenti, senza nessuna garanzia di riuscita, va avanti Guidotti: “Così se un’azienda ha già un brevetto per una molecola, con uno struttura adeguata su cui lavorare, parte da questo”. Iniziando da una valutazione economica, certamente, ma non solo.

“Mettere a punto un antivirale, infatti, significa condurre una quantità enorme di test. Servono dati strutturali, soprattutto dei target che la molecola vuole colpire. E per avere questi dati servono analisi di cristallografia a raggi X, simulazioni in silico, sintesi e screening di migliaia di composti sulla base di queste informazioni strutturali, oltre che test di efficacia per capire se una molecola ha capacità antivirale, prima in vitro su molecole target ricombinanti, poi su colture cellulari e quindi nei modelli animali, con analisi di farmacocinetica e tossicità, sia nell’animale sano che in quello infettato”, spiega Guidotti, che nel laboratorio al San Raffaele si occupa proprio di questo. E aggiunge: “Tutto ciò è necessario solo nella fase iniziale del processo: una volta che si ha tra le mani un possibile candidato, si procede con ulteriori analisi tossicologiche, e al tempo stesso si lavora per mettere a punto la formulazione della molecola, compresa la scalabilità del processo di sintesi”. Se tutto va bene, l’intero processo, prima ancora di sbarcare nella fase di sperimentazione clinica, prende circa tre-quattro anni.

Non sorprende dunque, che di fronte all’emergenza imposta dalla pandemia, la strada più battuta sia stata quella del riposizionamento di molecole già esistenti. Non lo ha fatto solo Gilead con il remdesivir, ma anche altre aziende stanno rilanciando la propria scommessa sugli antivirali nati per altri germi: Msd e Ridgeback Biotherapeutics, per esempio, stanno testando il molnupiravir, sviluppato per trattare l’influenza. Purtroppo, però, negli ultimi mesi abbiamo assistito anche al fallimento di alcuni tentativi di riposizionamento. I ricercatori hanno provato contro Covid-19 farmaci antiretrovirali usati contro l’Hiv – lopinavir/ritonavir o darunavir/ritonavir – con scarsi risultati però.

Ideale cercasi

A oggi solo remdesivir ha quindi trovato una sua utilità nella lotta a Sars-CoV 2, anche se parziale. I risultati degli studi clinici mostrano infatti un’efficacia limitata, velocizzando al più i miglioramenti dopo l’infezione, per esempio. E la stessa Organizzazione mondiale della sanità non ne raccomanda l’uso nei pazienti ospedalizzati. “Il remdesivir è un antivirale da somministrare per via endovenosa, in una fase non precocissima, quando il paziente ha già bisogno di ossigenoterapia: questo riduce l’attività del farmaco stesso”, commenta Massimo Andreoni, ordinario di Malattie infettive della facoltà di Medicina e chirurgia all’Università degli studi di Roma Tor Vergata. Che aggiunge: “Nelle fasi più avanzate del Covid-19, infatti, la malattia non è più legata al virus in sé, che ha fatto da detonatore, ma ha sviluppato una patogenesi su base infiammatoria, ed è quella che va bloccata”.

L’antivirale ideale, dunque, è un farmaco – possibilmente in pillola, così da rendere l’assunzione semplice, e auguratamente gestibile da casa – da assumere nelle primissime fasi dell’infezione. “Già ai primi sintomi della malattia – riprende Andreoni – o, addirittura, se avessimo a disposizione un farmaco pratico e senza tossicità appena si diventa positivi, senza attendere la comparsa dei segni”. Il rischio, in questo caso, è quello di somministrare troppo farmaco o di farlo inutilmente, considerato che spesso quella da Sars-CoV 2 è un’infezione che rimane silente, negli asintomatici.

“Ma un antivirale funziona inibendo la replicazione del virus: il che, oltre a prevenire la progressione della malattia, riduce la capacità di propagazione del patogeno. Perciò se avessimo una pillola a bassissima tossicità potremmo pensare di usarla anche nell’ottica di bloccare la trasmissione della malattia”, spiega Andreoni, che non ha dubbi sul fatto che di farmaci così ne avremo un gran bisogno, almeno nel prossimo futuro: “Il coronavirus ormai si è adattato e continuerà a circolare nella popolazione ogni anno. Avere farmaci efficaci sarà fondamentale: la partita non è finita con i vaccini”.

L’esempio più concreto oggi è quello del Regno Unito che, dopo un prolungato lockdown e un’estesa campagna di vaccinazione, che hanno portato a piegare la curva della mortalità, ha appena lanciato la Covid-19 Antivirals Taskforce. L’obiettivo – ambizioso, per tutto quello che abbiamo raccontato – è quello di arrivare ad avere in mano dei farmaci già entro l’anno. Possibilmente in pillole, da prendere a casa, in seguito a esposizione al virus o dopo un test positivo, riferiscono dal dipartimento della salute britannico. “Gli antivirali in compressa sono un altro strumento chiave della risposta (al Covid-19, nda)”, ha commentato Patrick Vallance, consigliere scientifico capo del governo britannico, al lancio del progetto: “Potrebbero aiutare a proteggere coloro che non lo sono o che non possono accedere ai vaccini. E potrebbero anche essere un altro livello di difesa di fronte alla minaccia di nuove varianti”. A cui aggiungere il vantaggio, precisa Guidotti, di prodotti che non hanno bisogno di catena del freddo, facili da produrre industrialmente, specialmente rispetto ai vaccini.

La scommessa delle aziende

A scommettere sui tempi però è (ovviamente) anche la stessa Big Pharma. L’amministratore delegato di Pfizer, Albert Bourla, in un’intervista alla Cnbc ha dichiarato che se tutto andrà per il verso giusto, una pillola antivirale contro il virus potrebbe arrivare già entro l’anno. L’azienda, infatti, ha in fase di studio anche due antivirali. Bloccano entrambi la proteasi del virus – un enzima necessario alla replicazione – ma uno prevede di essere somministrato per via orale, ed è per questo che Bourla ne ha parlato come un “game changer”. Anche il target identificato fa ben sperare, a detta dell’azienda, perché sembrerebbe poco suscettibile a mutazioni e si presta a essere combinato con altri antivirali. Se Pfizer vincerà la scommessa, come già fatto con i vaccini, è ancora presto per dirlo: la molecola in questione, la PF-07321332, è appena entrata nelle fasi iniziali di sperimentazione clinica.

Sotto l’ombrello di sostanze con attività antivirale però potremmo annoverare anche una classe di molecole a sé stanti, aggiunge Andreoni. Perché, anche se di fatto non mirano a colpire il virus (e i suoi componenti) quando è dentro la cellula, gli impediscono di entrare, e quindi di potersi riprodurre, agendo come antivirali. Sono gli anticorpi monoclonali, molecole la cui attività si svolge prima che il patogeno si annidi dentro la cellula ospite, di fatto prendendola in ostaggio.

Gli anticorpi monoclonali disponibili in Italia sono quattro e si prendono a coppia, c’è bisogno cioè di un cocktail per ottenere il miglior risultato: bamlanivimab-etesevimab (Eli-Lilly) e casirivimab-imdevimab (Regeneron/Roche). A oggi i pazienti italiani a cui sono stati somministrati sono qualche migliaio: pochi, anche considerando i limiti imposti dall’indicazione per cui sono stati resi disponibili, cioè solo pazienti ad alto rischio in cui l’infezione non si sia manifestata da più di qualche giorno. A impedirne un uso più capillare molto probabilmente è la loro difficile gestione: sono farmaci che si devono somministrare in ospedale attraverso infusione.

Qualcosa però potrebbe cambiare anche nel campo dei monoclonali: sono in corso sperimentazioni per utilizzare anche questi stessi monoclonali sottocute invece che per endovena. Il mix casirivimab-imdevimab, per esempio, aiuta a prevenire la malattia in soggetti esposti al virus (come i familiari di soggetti positivi) e riduce la gravità dei sintomi anche se somministrato sottocute. È poi in fase di studio anche per somministrazione intramuscolo (e non solo endovena) l’anticorpo monoclonale sotrovimab (anche noto come Vir-7831) sviluppato da Gsk and Vir Biotechnology e diretto, come gli altri, contro la proteina spike del coronavirus. L’Agenzia europea del farmaco (Ema) ha appena avviato una “rolling review”, ovvero una procedura di revisione dei dati sul farmaco velocizzata, esaminandoli man mano che vengono prodotti, parallelamente a una revisione che possa fornire supporto ai governi europei prima della sua eventuale approvazione. I dati preliminari derivanti dallo studio Comet-Ice suggeriscono, infatti, un’efficacia elevata nel ridurre il rischio di ospedalizzazione e morte in pazienti con Covid-19 ad alto rischio.

Parlando di antivirali in senso stretto però, realisticamente, da quello che attualmente bolle in pentola non dovremmo aspettarci degli antivirali perfetti, ammette Guidotti; almeno non nel breve termine. I primi che arriveranno, se non quest’anno il prossimo, saranno probabilmente antivirali non eccezionali. Una prima generazione di partenza, su cui lavorare affinandone via via l’efficacia. “Il processo di messa a punto di un un antivirale procede per tentativi ed errori, ci si muove dal first in class per arrivare, attraverso le generazioni successive, al best in class: un farmaco che magari non è arrivato per primo ma che si rivela il migliore nel campo”, commenta l’esperto. E il panorama è popolato di candidati: “Al momento esistono circa 240 composti in fase di sviluppo, soprattutto preclinico, contro Sars-CoV 2”, racconta Andreoni.

Non solo Covid

D’altronde, che serva tentare e affinare, e ancora raffinare le armi, lo dimostrano anche i casi degli antivirali più di successo mai sviluppati nella storia della medicina, sebbene per patologie completamente diverse, l’epatite C e l’Hiv, come conclude Andreoni: “In entrambi i casi parliamo di una ricerca ormai trentennale che è riuscita a produrre medicine sempre più efficaci e tollerabili”. Dopo la scoperta del virus ci sono voluti anni per arrivare a delle terapie che, però, erano largamente imperfette. Invece, annota il virologo: “Oggi contro l’epatite C abbiamo farmaci in grado di debellare il virus nel 98% dei casi nel giro di 12 settimane, e contro l’Hiv siamo arrivati a mettere a punto formulazioni di antivirali che riducono la trasmissione dell’agente infettivo e che possono essere assunti solo una volta ogni due mesi. Che è una grande conquista: fino a pochi anni fa i pazienti dovevano prendere decine di pillole giornaliere”.

Pertanto, gli antivirali che verranno, se verranno, anche contro Covid-19 non saranno probabilmente che i primi, da ottimizzare per trovarsi (più) pronti alla prossima pandemia.



www.repubblica.it 2021-06-26 05:00:00

ancheAnna Lisa BonfranceschiCoronavirusCOVIDCuraFarmacilongformservonosolovaccinivirus