Il veleno di un ragno può proteggere il cuore dopo l’infarto


E’ un nemico formidabile per la salute, il ragno a imbuto o Atrax robustus. Ma dal suo veleno letale potrebbe nascere la speranza per la protezione delle cellule cardiache che vanno incontro ad ischemia grave, in caso d’infarto, e possono quindi morire senza essere rimpiazzate. Insomma, se è vero che in greco pharmakon significa anche veleno, ecco servita, anche sesiamo solamente all’inizio delle ricerche, una possibile applicazione per la salute dell’uomo che nasce da sostanze potenzialmente mortali. Sia chiaro: il potenziale trattamento “salvacuore” non è legato all’intero veleno dell’aracnide, ma piuttosto ad una proteina in esso contenuta, chiamata Hi1a. In cellule cardiache che hanno subito una condizione simile a quella dell’attacco cardiaco, la somministrazione di questa proteina ha consentito di migliorarne la sopravvivenza. La sperimentazione, visto che il ragno a imbuto (detto anche di Fraser Island) si trova in Australia, è stata condotta dagli esperti dell’Università del Queensland e del Victor Chang Card Research Institute, coordinati da Nathan Palpant, Glenn King e Peter Macdonald. Lo studio sperimentale è stato pubblicato su Circulation e la speranza è passare prima possibile ai test sull’uomo del potenziale farmaco tratto dalla proteina del veleno mortale.

In pratica, l’obiettivo del trattamento è modificare l’ambiente che si crea nel cuore in caso di ischemia prolungata, come appunto avviene in caso d’infarto. In queste condizioni infatti le cellule del cuore si trovano in un ambiente acido, che in qualche modo crea una condizione che ne facilita la morte. Con la proteina Hi1a tratta dal veleno dell’Atrax robustus l’obiettivo è invertire questa situazione. Grazie a questa sostanza infatti si bloccano i canali ionici sensibili all’acido all’interno del muscolo cardiaco, inibendo quindi il segnale che porta le cellule a morire. Risultato: si riduce la morte cellulare e soprattutto le cellule cardiache sopravvivono più a lungo. In attesa degli sviluppi di queste osservazioni, si aprono orizzonti importanti per il trattamento dell’infarto acuto, il cui successo è correlato al tempo (non per nulla si consiglia sempre di chiamare i soccorsi in caso di sintomi, perché la diagnosi precoce è fondamentale per la sopravvivenza e per limitare gli esiti a distanza sul cuore dell’ischemia), soprattutto quando non è possibile giungere presto alle terapie, per distanza dai centri di primo soccorso.

Ma non basta. L’ipotesi di lavoro potrebbe risultare utilissima, se confermata nell’uomo, anche per migliorare la disponibilità di cuori per i trapianti, anche a distanza. Ovviamente però prima di lasciarsi andare troppo con la fantasia occorre ottenere prove certe della sicurezza dell’efficacia del trattamento nell’uomo. La speranza dei ricercatori australiani è di poter iniziare la sperimentazione sull’essere umano in pochi anni, per mettere a disposizione della medicina un’arma in più per limitare i danni acuti e gli esiti a distanza dell’infarto.

Non è la prima volta che si parla del veleno dell’Atrax robustus per limitare i danni legati alle malattie cardiovascolari. Qualche tempo fa sulla rivista dell’Accademia americana delle scienze (Pnas) è apparso un altro studio della stessa équipe che fa ipotizzare un possibile utilizzo della proteina Hi1a nel trattamento dell’ictus, per limitare i danni cerebrali e i conseguenti esiti fisici della lesione.

 



www.repubblica.it 2021-07-31 06:00:00

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