Alzheimer, tra farmaci classici e nuove strategie


L’Alzheimer è una malattia complessa che inizia molti anni prima della comparsa dei sintomi. Gli aspetti patologici su cui si cerca di intervenire sono più d’uno: si va dal cercare di contrastare accumulo di placche della proteina beta amiloide e l’iperfosforilazione della proteina tau, che forma ammassi neurobrillari responsabili della neurodegenerazione, al cercare di ridurre infiammazione e lo stress ossidativo. Pensare di aggredire uno solo di questi fattori chiave è quantomeno presuntuoso: “Come avviene in altre specialità, dall’oncologia alla medicina interna, la strada da percorrere è quella della combinazione delle strategie terapeutiche e dell’adozione di un approccio personalizzato” dice Alessandro Padovani, dell’Università di Brescia e direttore della Clinica Neurologica degli Spedali Civili. “Bisogna avere il coraggio e anche la forza economica di condurre studi clinici lunghi, stratificando i pazienti a seconda delle loro condizioni e dello stadio di malattia, avere degli indicatori di efficacia biologica che diano ragione della prosecuzione dello studio e aggiungere più trattamenti in combinazione”.

 

Di malattia di Alzheimer si parlerà al XXV World Congress of Neurology organizzato dal 3 al 7 ottobre dalla Federazione mondiale con la Società italiana di neurologia SIN, che si sarebbe dovuto tenere in presenza a Roma, ma si svolgerà in modalità virtuale. Padovani parlerà di un tema a torto ritenuto minore: i farmaci sintomatici.

“La combinazione di farmaci diversi può dare risultati più favorevoli rispetto a quello che oggi comunemente si ritiene. Inoltre, quelli sintomatici non sono palliativi, ma hanno in realtà un’azione protettiva e riducono alcuni indicatori di progressione come per esempio l’ospedalizzazione e la necessità di assistenza” spiega Padovani, ricordando ad esempio, il sistema dopaminergico alla base del controllo motorio extrapiramidale il cui coinvolgimento è ormai ampiamente riconosciuto anche nell’Alzheimer: “Il 35% dei pazienti ha problemi extrapiramidali: aggredirli permette di ridurre i sintomi motori e cognitivi”. Anche la neurostimolazione, che sembra dare miglioramenti nell’attenzione e nella concentrazione del paziente che persistono fino a qualche mese dal trattamento, puó essere di aiuto.

 

La ricerca farmacologica si sta muovendo in molte direzioni e, partendo dal fatto che le persone con diabete di tipo 2 sono più a rischio di sviluppare Alzheimer e da altri dati epidemiologici, si è arrivati alla scoperta di possibili meccanismi fisiopatologici comuni fra insulinoresistenza e Alzheimer. Ci si è quindi orientati allo studio degli effetti dei farmaci antidiabetici, in particolare gli analoghi del GPL-1 umano liraglutide e semaglutide, sull’accumulo di beta amiloide e di tau fosforilata e anche sulla funzione cerebrale e sulla cognizione. Studi in vivo in modelli murini di Alzheimer, ma anche di Parkinson, hanno mostrato effetti neuroprotettivi e neurotrofici di queste molecole, benefici mediati dal miglioramento della segnalazione dell’insulina nel cervello. Ma il passaggio sull’uomo, finora, non ha dato i risultati promessi: nello studio britannico di fase 2 Elad, partito nel 2014 all’Imperial College con il liraglutide, la Pet FDG, metodica di valutazione del metabolismo del glucosio a livello cerebrale non ha rilevato cambiamenti. Ora, ci si riprova con l’altra molecola simile, il semaglutide.

 

Uno studio internazionale, finanziato dall’azienda produttrice, è al via anche in Italia con il reclutamento di pazienti con malattia lieve. “Sui pazienti con diabete di tipo 2, la somministrazione per due anni è efficace nella riduzione dell’incidenza del decadimento cognitivo” spiega Alessandro Padovani che ricorda comunque l’importanza di “investire su farmaci potenzialmente in grado di agire nelle fasi più avanzate e quindi in pazienti che hanno già la demenza per ridurre la progressione di malattia”. Lavorare su farmaci come questi, alternativi agli anti-amiloide, è importante anche “alla luce della perplessità di parte della comunità scientifica sulla percorribilità della strada degli anticorpi monoclonali”.

 

La proteina beta amiloide

Infatti, grandi speranze, in parte disattese, sono state riposte nell’immunoterapia per la cura dell’Alzheimer. Gli approcci sono due: da un lato, la somministrazione di una proteina simile a quella incriminata, la beta amiloide, per stimolare una risposta del sistema immunitario e, dall’altro, la cosiddetta immunizzazione passiva che consiste nell’iniezione di anticorpi monoclonali che legano la proteina per rimuoverla con il cosiddetto processo di clearance, o smaltimento. Lo scorso giugno, la Food and Drug Administration FDA ha approvato il primo di questi anticorpi, l’aducanumab, che riduce il carico di amiloide cerebrale, ma il cui beneficio clinico è tutto da dimostrare. Ciò ha sollevato molte discussioni, in particolare se l’efficacia biologica sia sufficiente per l’approvazione di un farmaco, che in questo caso è comunque vincolata all’esecuzione di altri studi e al raggiungimento di evidenze di un chiaro e quantificabile beneficio clinico, come il rallentamento della malattia o la riduzione dei sintomi.

“Quella dell’immunizzazione attiva è una lunga competizione, l’aducanumab è il primo ma presto ce ne saranno altri” dice Padovani, ricordando gli effetti collaterali dell’immunoterapia. “Gli anticorpi monoclonali vanno definiti meglio nel loro obiettivo e tra tutte le specie di amiloide vanno selezionate quelle che eventualmente saranno identificate come più tossiche o aggredibili”.

Gli effetti collaterali
Già, perché mirare come fanno gli anticorpi monoclonali selettivamente alle forme aggregate di Aβ non è un’azione priva di conseguenze avverse per il paziente, perché scatenano una reazione infiammatoria cerebrale importante. Infatti, gli effetti collaterali sono oggetto di un warning della FDA e sono stati studiati nei pazienti arruolati negli studi registrativi. “Circa il 40% dei soggetti sviluppa delle anomalie di imaging correlate all’amiloide, anche dette Aria (dall’inglese amyloid-related imaging abnormalities)” spiega Fabrizio Piazza della Scuola di Medicina dell’Università di Milano-Bicocca. Di recente, inoltre, dal confronto dello stato di salute dei pazienti con Alzheimer con i criteri di eleggibilità agli studi, è emerso che nel real world gli eventi avversi potrebbero essere molto più frequenti. 
 

Un modello naturale degli eventi avversi
Con il suo gruppo, Piazza ha appena pubblicato su Neurology un lavoro, finanziato dall’Alzheimer’s Association americana e da Fondazione Cariplo, che descrive per la prima volta una condizione rara, l’infiammazione correlata ad angiopatia amiloide cerebrale, che è un modello naturale delle ARIA, gli eventi avversi osservati nei trial clinici. Conoscere e saper gestire questa malattia, dunque, diventa oggi ancora più importante, proprio per la sua somiglianza con l’infiammazione scatenata dal farmaco, le Aria appunto, i cui sintomi sono edemi e microsanguinamenti cerebrali. Il team ha anche individuato la gestione di questi eventi: “Per la prima volta, mostriamo che bisogna intervenire subito con dei cortisonici” spiega Piazza “la cui efficacia è chiara anche nel prevenire le recidive”. 

Su che cosa scateni questi pericolosi eventi, tanto quelli spontanei che quelli dovuti alla cura di anticorpi monoclonali, ancora non ci sono certezze. “Già nel 2013 abbiamo visto che nei pazienti con angiopatia amiloide cerebrale si osserva un aumento di autoanticorpi contro la beta amiloide nel liquido cerebrospinale che, guarda caso, sono proprio simili a quelli somministrati contro l’Alzheimer” spiega il biotecnologo farmaceutico che, già dieci anni fa, ha fondato iCAβ International Network, un consorzio di 25 centri in 13 paesi per l’identificazione e la validazione di biomarcatori della angiopatia amiloide infiammatoria e della malattia di Alzheimer. Sono quindi i principali indiziati. “La massiccia presenza di beta amiloide in circolo gioca sicuramente un ruolo in entrambi tipi di ARIA. Probabilmente la deposizione parenchimale e vascolare è importante, ma la prognosi del paziente non è governata da tale deposizione di amiloide ma piuttosto dall’infiammazione” spiega Piazza, al lavoro proprio sulle cellule della microglia per cercare di comprendere questi fenomeni infiammatori per sopprimerli. “Individuare dei marcatori specifici sarebbe molto utile per la diagnosi differenziale, ora essendo impossibile distinguere le due ARIA”, quelle spontanee, dovute all’angiopatia amiloide, da quelle provocate dal trattamento.

A complicare le cose, infatti, c’è il fatto che la maggior parte di pazienti con diagnosi di Alzheimer ha una concomitante angiopatia amiloide di un qualche grado. Per costoro, quindi, la terapia potrebbe essere rischiosa. Eppure, proprio questi pazienti, che nel 50% dei casi evolve in Alzheimer, “sarebbero i migliori candidati alla cura, in un’ottica di precocità e tempestività di intervento” commenta il ricercatore. La ricerca è dunque cruciale per le sue implicazioni nei farmaci anti amiloide: per arrivare a chiare indicazioni su chi trattare, chi invece escludere dal trattamento e come gestire gli eventi avversi. È questo un esempio emblematico di come lo studio delle malattie rare possa avere ampie ripercussioni e l’Alzheimer non sia un problema solo dei neurologi. Collaborazione e traslazionalità sono condizioni necessarie alla lotta contro l’Alzheimer.



www.repubblica.it 2021-09-29 15:45:43

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