Carolina Marconi: “Dal tumore ti salva chi ti ama”


IL SENSO del libro di Carolina Marconi, classe 1978, è tutto nel titolo, semplice e diretto: “Sempre con il sorriso” (Edizioni Piemme, 256 pp.). Racconta la sua storia: quella della diagnosi inaspettata di tumore al seno (quale diagnosi lo è?), quella della sua famiglia e di chi ha incontrato nel percorso. E racconta il caleidoscopio in cui si è trovata, in piena pandemia. Ogni tanto, fa capolino nel testo un “dietro le quinte” che porta l’attenzione sulla prevenzione e su altri temi che ruotano intorno alla parola cancro. Il libro si apre con una sorta di prequel, in una clinica per la fertilità.

«Non posso permettermi di avere un tumore, io devo fare il mio bambino».

Il sospetto di tumore è arrivato con l’ultimo esame richiesto prima di cominciare il percorso di fecondazione assistita: la mammografia. Non era il tuo primo controllo al seno, giusto?

“No, il primo controllo al seno l’ho fatto presto, prima dei 30 anni, perché avevo le protesi. Ma erano 4 anni che non facevo visite. All’inizio avevo rimandato per non so quale motivo. Ce n’è sempre uno: le solite cose della vita, che non dovrebbero mai avere la priorità sulla salute. Ora lo so. Poi è arrivato il Covid: la paura era protagonista e, come molte donne, ho preferito non andare in ospedale. Immagino che nessuno si aspetti un tumore. Io no di certo: non avevo familiarità e sono sempre stata una persona salutista. È stato un fulmine a ciel sereno che ha trafitto tutto. Ma siamo umani, succede”.

«Quel giorno ho capito che esiste un tipo molto particolare di coraggio, quello di chi non ha scelta. E non vorresti mai scoprire di averlo».

Cosa pensi della metafora della guerra, usata spesso per parlare del percorso di cura per il tumore?
“Che non si riflette molto sulle parole che si usano per abitudine, come modi di dire. All’inizio, quando qualcuno mi chiamava ‘guerrera’ mi sentivo presa in giro. Non c’è metafora abbastanza forte per dire cos’è questo percorso, e forse il termine battaglia si avvicina più di altri. Ma non ci sono sconfitti o fallimenti: siamo tutti vincitori, indipendemente da come va a finire. Io amo la vita e se vuoi vivere devi agire, non è che può fare altrimenti. Non mi piace neanche il termine ‘malati’, però: per me la malattia è una situazione da risolvere. Io avevo la mia situazione da risolvere”.

«Sono arrivata a chiedermi se davvero avesse ancora senso restare al mondo. Una domanda assurda ma comprensibile quando la tua vita sembra improvvisamente limitata al tragitto tra divano, letto e bagno. Che senso aveva restare, in quelle condizioni? Allora ti salvano la famiglia, gli amici, chi ti ama. Ti salvano con le loro visite, le telefonate, i messaggi, le chiacchiere. I miei suoceri che mi preparano il pesce».

In tutto libro inciti le donne a non isolarsi, e i loro cari ad essere presenti anche nei momenti più difficili. Sembra che se c’è un nemico da combattere sia piuttosto la solitudine.

“Avere accanto gli altri e sentirsi sostenuta è stupendo. L’ho vissuto in prima persona e penso sia giusto che tutte ci diamo una possibilità. È capitato tante volte che mi sentissi uno schifo, non volevo che i miei nipoti piccoli mi vedessero. A volte mi mettevo la parrucca anche se con le cure ormonali avevo le vampate e morivo di caldo. Ma loro arrivavano e mi travolgevano: mi toglievano la parrucca – ‘zia sei bella così’ – e mi riempivano la testa di baci. La mia famiglia voleva rimanere per forza proprio nel momento in cui avevo dolore. C’erano giornate che mi faceva male tutto e loro mi facevano i massaggi. Mi facevano ridere. Dopo ogni chemio mia sorella restava a casa mia 8 giorni, lavorando a distanza, mentre a me veniva da vomitare. I miei fratelli si sono fatti centinaia di tamponi per stare con me, quando non costavano così poco. Non c’erano letti per tutti e dormivano per terra. Magari ci sono persone a cui tutto questo non serve, però dovrebbero provarlo. Chi è malato non dovrebbe mai essere abbandonato. Questi sono i ricordi che mi restano di quel periodo”.

«Ogni piccolo movimento è stata una sofferenza, tutto si è trasformato in una fonte di fastidio e, ovviamente, l’umore ne ha risentito. Brontolavo, sorridevo molto meno di quanto facessi di solito. Mi arrabbiavo con tutti, con il mondo intero. Ci sono stati momenti – per fortuna rari – in cui non ero del tutto me stessa. È stato difficile persino per le mie sorelle o per il mio compagno. Figuriamoci per gli altri… Questo è un argomento di cui non si parla abbastanza. Stare accanto a un malato è difficile emotivamente e non solo. Richiede tempo ed energie».

Le interazioni sui social appaiono a volte futili, cosa pensi dei contatti con persone sconosciute?
“Che sono in grado di darti un fortissimo sostegno. Ho sempre condiviso tutto della mia malattia su Instagram. Tra i primi messaggi che mi sono arrivati c’è stato questo: ‘Non sei sola, aggiornami”. Ed è quello che scrivo ora anche io a chi mi contatta perché ha ricevuto questa diagnosi. Con tante donne che non ho mai incontrato ci siamo tenute compagnia a lungo, raccontandoci le nostre storie. Storie incredibili, commoventi. Alcune di loro mi chiedono di dare persino consigli ai mariti su come comportarsi con chi è malato. La vita dei caregiver non è per nulla semplice”.

«Mi hanno lasciata con una scelta da fare: levare tutta la mammella o solo il quadrante. Una decisione su un argomento di cui non sapevo nulla. La prima di tante».

Particolare di un dipinto di Carolina Marconi, acrilico.  

Racconti che durante il primo incontro con l’oncologo avevi le cuffie alle orecchie e ascoltavi la bachata. Non volevi sapere?
“No, volevo affidarmi. Quando ricevi la diagnosi sei confusa, ti parlano di cose che non conosci e non capisci. C’è bisogno di un certo tempo per accettarlo. Non puoi dire subito a un paziente tutto lo scibile su terapie, interventi, statistiche. È troppo. Io speravo solo che tutto passasse in fretta. Di risvegliarmi dall’anestesia, di finire la chemio per far passare la nausea e ricominciare a dipingere. Di non avere più un sistema immunitario compromosso dalle cure, per tornare a sentire il profumo del mare e guardare i tramonti senza paura della folla in spiaggia”.

 

«Finché non lo vivi, pensi siano solo capelli, il viso gonfio, le cicatrici sul seno. Ma l’importante è guarire, giusto? Se hai un tumore non dovresti preoccuparti di questi dettagli un po’ futili. Devi guarire, non essere vanitosa. È così, eppure vi assicuro che è difficile. La notte mi sveglio, mi alzo per andare in bagno, passo davanti alla finestra e intravedo il riflesso di una donna che non conosco: una sconosciuta in casa mia. Più volte mi sono spaventata, mi è venuto un colpo per non essermi riconosciuta».

Come è cambiato il rapporto con il tuo corpo?
“L’ho dovuto ricostruire. Ma io amo il mio corpo, amo anche le cicatrici: ne sono piena, ne ho persino una sulla fronte. Come faccio a non amarle? Ho preso 13 chili per le terapie, mi è venuta la cellulite. Ma i capelli mi stanno ricrescendo e sto riprendendo a fare le cose che mi piacevano, come lo sport. La cura di questa malattia è la pazienza: piano piano mi rimetterò in forma, perderà i chili… Sono lievitati persino i piedi! Non ci soffro: le mie amiche mi prendono in giro e mi chiedono di regalare loro i vestiti, ma niente da fare, intendo tornare a indossarli. Alla fine l’unica cosa che sarà cambiata è Carolina dentro. Più forte, più consapevole. Ora mi godo tutto, non rimando più quello che amo, non perdo tempo per le cose stupide. E cerco di non arrabbiarmi”.



www.repubblica.it 2022-01-27 19:09:22

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