Quando il Covid prende di mira stomaco e intestino


Nausea, dolori di pancia, diarrea, anche a un anno di distanza dall’infezione Covid. È uno studio dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna a dimostrare che il virus, quanto agli effetti a lungo termine che provoca sull’organismo, può colpire duramente anche l’intestino. Tanto da ipotizzare che nei prossimi anni ci potrà essere oltre mezzo milione di pazienti da curare per patologie gastroenterologiche.

Lo studio su duemila pazienti

La ricerca, chiamata Gi-covid19, ha come promotore e coordinatore la Medicina Interna e Gastroenterologia dell’Irccs Policlinico Sant’Orsola di Bologna, diretta dal professor Giovanni Barbara, e ha incluso più di 2.000 pazienti ricoverati con Covid in 36 centri di 12 nazioni europee. I risultati definitivi dello studio sono stati presentati al Congresso Internazionale Ibs Days 2022, tenuto a Bologna, alla presenza dei principali esperti mondiali sull’argomento.

I sintomi della fase acuta

Ma cosa è emerso? Innanzitutto, sono stati definiti i dati relativi alla fase acuta della malattia, risultati pubblicati sulla rivista The American Journal of Gastroenterology. Per raccoglierli, i ricercatori hanno seguito durante il ricovero e per un mese i pazienti ospedalizzati. E ne hanno tratto risultati che non lasciano spazio a dubbi: i sintomi gastrointestinali, come nausea e diarrea, si verificavano più frequentemente in questo gruppo (59,7%) rispetto al gruppo di controllo (43,2%). E, a un mese dal ricovero, i pazienti guariti continuavano a lamentare nausea. Quindi, si è concluso che l’infezione causata da Sars-CoV 2 può portare a disfunzioni gastrointestinali persistenti anche a un mese dal contagio.

La conseguenze a lungo termine

Ma il lavoro di indagine non si è fermato. L’équipe ha analizzato i pazienti a un anno dall’ospedalizzazione, e parte dei risultati è stata presentata in anteprima negli Usa al Digestive Disease Week. In particolare, è emerso che il 3,2% delle persone colpite dai virus sviluppa sintomi digestivi persistenti, non presenti prima dell’infezione, compatibili con la diagnosi di sindrome dell’intestino irritabile. Parliamo di un disturbo che si caratterizza per la presenza di dolore addominale e alterazioni dell’alvo, e che potrebbe quindi rientrare nello spettro clinico del Long Covid.

Ora, considerando che in Italia sono 17 milioni le persone che si sono infettate e ammalate, i dati suggeriscono che nei prossimi anni ci potrà essere oltre mezzo milione di pazienti da curare per patologie gastroenterologiche.

Pregliasco: “Meccanismi ancora da capire”

“Questo studio conferma un aspetto che la scienza ha già evidenziato”, spiega Fabrizio Pregliasco, virologo e direttore dell’ospedale Galeazzi di Milano. “Parlo, appunto, dell’azione plurima del virus che, nella malattia acuta, ha come bersaglio i polmoni, ma nel Long Covid può attaccare organi diversi: cuore, cervello, stomaco, intestino e altro. Con valori che vanno da un mezzo a un terzo delle persone coinvolte dal contagio. Gli strascichi che ne derivano restano nel tempo per periodi diversi; il perché lo scopriremo nel corso del tempo. È il decorso che hanno tutte le malattie infettive: la stessa influenza uno strascico ce l’ha. Ma – conclude Pregliasco – nel caso del Covid bisogna comprendere il meccanismo che fa sì che alcune persone incorrono in problemi cardiaci, altre in conseguenze neurologiche o gastrointestinali. Con l’ampliarsi della casistica si potrà capire di più e individuare le giuste terapie”.

Il ruolo del microbiota

Ma anche altri studi precedenti hanno indagato su come e perché il Long Covid possa prendere a bersaglio l’intestino. È il caso di una ricerca dell’Università di Hong Kong pubblicata a inizio anno sulla rivista Gut. Ricerca che ha accertato una possibile relazione tra uno stato alterato del microbiota intestinale e lo sviluppo dei sintomi a lunga durata.

Lo studio aveva arruolato 106 pazienti ricoverati per una forma grave di Covid in tre ospedali della città cinese tra febbraio e agosto 2020. E aveva incluso anche un gruppo di controllo di 68 persone non positive al virus. A 6 mesi dalle dimissioni dall’ospedale, 81 dei malati (76%) aveva la sindrome post-acuta Covid (Pacs), definita come almeno un sintomo persistente, altrimenti inspiegabile, quattro settimane dopo l’eliminazione del virus: i più comuni erano affaticamento, scarsa memoria, perdita di capelli, ansia e disturbi del sonno. L’analisi delle feci aveva rilevato nelle persone senza sintomi di Pacs a sei mesi dalla guarigione, un profilo del microbiota intestinale paragonabile a quello dei controlli non Covid-19, mentre i malati con sintomi avevano una diversità e numerosità di specie batteriche nel microbiota intestinale significativamente inferiore.



www.repubblica.it 2022-07-19 04:45:55

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