Tumori del retto: quando si può evitare l’intervento?


Il trattamento del cancro al colon-retto sta cambiando, contribuendo a cambiare anche la storia della malattia, soprattutto per le forme avanzate di tumore del retto. Sempre più, infatti, si comincia a parlare della possibilità di non operare i pazienti, in alcuni casi selezionati. Si tratta di un atteggiamento per ora timido da parte degli addetti ai lavori, ancora impegnati nella raccolta dati, ma le premesse indicano che a volte – dopo trattamenti medici e radioterapici – la strada potrebbe essere quella di un’attenta osservazione più che quella della chirurgia.

I tumori del retto avanzato: rivedere gli standard di cura?

A oggi, racconta Uberto Fumagalli Romario, direttore della Chirurgia Apparato Digerente e Tumori Neuroendocrini presso lo IRCCS IEO Milano (tra le strutture di eccellenza per la gastroenterologia), lo standard di cura contro il tumore del retto in stadio avanzato prevede generalmente una chemio-radioterapia seguita da chirurgia e poi di nuovo chemioterapia. “Il trattamento chemio-radioterapico iniziale porta in alcuni casi alla scomparsa del tumore. Ci si è quindi domandati se la chirurgia fosse davvero necessaria per trattare questi pazienti”, spiega l’esperto. Ma non solo. “La seconda considerazione è stata quella di voler verificare i risultati di un trattamento che preveda tutta la chemioterapia necessaria prima della (eventuale) chirurgia: la cosiddetta terapia neoadiuvante totale (total neoadjuvant therapy, ndr.)”.

I rischi legati agli interventi chirurgici

L’opzione di non procedere alla chirurgia avrebbe indubbi vantaggi dal punto di vista della qualità di vita: “Gli interventi di asportazione del retto hanno una serie di problematiche non indifferenti: da una parte esiste il problema della conservazione o meno dell’apparato sfinteriale – va avanti Fumagalli Romario – Nelle neoplasie a sede particolarmente bassa, vicino all’ano, può infatti essere necessario asportare oltre al retto anche il canale anale e l’ano, con la conseguenza di una stomia definitiva. Nei casi in cui risulta possibile mantenere il complesso sfinteriale, l’asportazione del retto determina la perdita della sua funzione di ‘serbatoio delle feci’. Questo porta all’insorgenza di quella sindrome denominata LARS, o Sindrome da resezione anteriore bassa del retto, che si caratterizza con disturbi di vario genere, come defecazione frazionata o alterazioni della continenza, con un significativo impatto sulla qualità di vita dei pazienti”. Non va poi dimenticato – prosegue l’esperto – che gli interventi di resezione del retto possono avere un decorso post-operatorio complicato in relazione alla comparsa di deiscenze o stenosi anastomotiche che condizionano anche prolungati tempi di recupero anatomo-funzionale. Appare dunque chiaro che scongiurare, dove possibile, gli interventi resettivi, le loro conseguenze e complicanze sarebbe un notevole guadagno per questi pazienti. Il problema, spiega Fumagalli Romario – che insieme ai colleghi ha discusso del tema nell’incontro “Attualità nell’ambito delle terapie integrate dei tumori del retto” della Società Italiana di Chirurgia (SIC) presso lo Ieo di Milano – è capire quando è opportuno farlo.

Controlli frequenti senza chirurgia

Uno dei possibili casi riguarda alcune forme particolari di tumore al retto, quelli con la cosiddetta instabilità dei microsatelliti. “Si tratta infatti delle forme che rispondono in alta percentuale e in maniera significativa ai trattamenti di immunoterapia – prosegue l’esperto – Ma sono neoplasie alquanto rare, e rappresentano circa il 3% dei tumori del retto”. Discorso diverso per il resto dei tumori al retto. In questo caso i candidati a non essere operati potrebbero trovarsi tra quelli che, in seguito alla terapia neoadiuvante completa per tumore in stadio avanzato, raggiungono una risposta completa. Quanti sono? Tanti considerando che ogni anno si contano oltre 50 mila nuove diagnosi di tumori del colon-retto in Italia, e che l’adenocarcinoma del retto è tra i più comuni. “Fino a quasi un terzo dei pazienti trattati con queste terapie, come emerge da studi internazionali, alcuni in via di pubblicazione, hanno una risposta completa o quasi completa al trattamento al momento della rivalutazione pre-chirurgica”, ricorda Fumagalli Romario.

Lo Ieo ha preso parte a uno di questi, lo studio NoCut coordinato dall’oncologia dell’Ospedale Niguarda di Milano guidata da Salvatore Siena (anch’essa tra le strutture d’eccellenza per la gastroenterologia). “Fino a poco tempo fa, anche di fronte a risposte complete dopo la chemio-radioterapia, ai pazienti veniva consigliata la chirurgia – riprende l’esperto – oggi possiamo pensare di inserire alcuni di questi in un programma di stretta sorveglianza, evitando una chirurgia precoce. Questo al fine di identificare, da una parte, i pazienti effettivamente guariti dal trattamento farmacologico, e dall’altra di individuare presto i pazienti che invece ripresentano una crescita di neoplasia e che quindi devono andare incontro alla chirurgia. E’ importante però – conclude l’esperto – che il follow-up sia effettuato presso centri dedicati, con tempistiche ravvicinate (ogni tre-quattro mesi), e con una diagnostica specifica che includa endoscopia e risonanza magnetica”.



www.repubblica.it 2024-05-02 10:26:14

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