In prima linea nei luoghi del mondo dove dare alla luce un figlio è una sfida e un ri…


Il 99% delle donne che muoiono di parto o per complicazioni legate alla gravidanza vivono nei Paesi in via di sviluppo. Conflitti, disastri naturali ed epidemie rendono ancora più difficile l’accesso all’assistenza sanitaria. Per ridurre la mortalità materna e garantire l’accesso tempestivo a personale qualificato, sui fronti più caldi di guerra e di emergenza umanitaria, l’organizzazione Medici Senza Frontiere è attiva con migliaia di operatori umanitari: ginecologhe, ostetriche e psicologhe.

In occasione della Festa della Mamma, abbiamo raccolto la testimonianza di alcune ostetriche italiane, reduci da missioni di MSF che hanno contribuito a rendere possibile il miracolo di generare nuove vite in Paesi devastati.

Chiara Ligabue, 30 anni – ostetrica in Benin

“Grazie al mio lavoro sto accanto alle donne nel momento che dovrebbe essere il più felice della loro vita: il parto. In Benin, però, le donne sono consapevoli di quanto quest’evento, per loro, rappresenti anche un momento in cui possono rischiare di morire. Per questo, se tutto va bene, la gioia è amplificata, anche per noi che contribuiamo a questo pmiracolo”. A raccontare con passione è Chiara Ligabue, giovane ostetrica modenese.

Reduce dalla sua prima missione in Benin, nell’ambito del progetto di salute materno-infantile di MSF, sottolinea quanto sia precaria l’accessibilità alle cure. “Le donne devono pagare anche per partorire o per le cure di emergenza, come nel caso delle emorragie – dice -. Per questo motivo la maggior parte di loro è costretta a partorire in casa, assistita da altre donne del villaggio al posto del personale medico qualificato. Spesso, se insorgono eventuali complicanze, è troppo tardi per salvare la situazione”.

Sono carenti collegamenti e mezzi di trasporto, ma anche strade e illuminazione notturna. Altrettanto fatiscenti sono le strutture sanitarie, prive di attrezzature adeguate e in condizioni igieniche spesso disastrose, contribuendo così ad innalzare la mortalità materna e neonatale. “In molti casi manca l’acqua e non ci sono neppure i mezzi per sterilizzare i ferri chirurgici, tra l’altro antiquati. A differenza dell’Italia, dove siamo abituati a lavorare in team, accade che l’ostetrica si ritrovi da sola a gestire l’emergenza di una paziente, senza anamnesi”, racconta Ligabue, sottolineando il supporto di MSF: competenza e gratuità delle cure sono i caposaldi, in una realtà dove, in tanti casi, persino le garze devono essere pagate dalla paziente.

A scandire la sua giornata in Benin è anche l’attività di sensibilizzazione nei villaggi. Insieme con le colleghe del posto informa le donne sulla possibilità di accedere all’assistenza sanitaria gratuita e, soprattutto, spiega loro l’importanza di prendersi cura di sé stesse e dei loro bambini. Sono attive sul fronte contraccezione, lottando contro uno stigma diffuso. “Ne spieghiamo l’utilità, in modo da distanziare un parto da un altro, evitando di compromettere la salute della donna, ma purtroppo il fattore decisivo resta la decisione del marito”.

Maria Rosaria Trivisonno, 39 anni – ostetrica in Afghanistan

Si chiama Maria Rosaria Trivisonno ed è un’ostetrica 39enne di Campobasso: da oltre 10 anni collabora con MSF in varie aree di crisi. “Lavoro in zone in cui anche essere donne rappresenta un ostacolo per accedere alle cure”, spiega. Si riferisce alla situazione in Afghanistan, dove i diritti delle donne sono sempre più compromessi. “Nonostante le donne in gravidanza, come anche i bambini sotto i cinque anni, siano considerate vulnerabili e, quindi, sottoposte a una maggiore attenzione da parte delle autorità, sono soggette a forti limitazioni. Per le procedure mediche serve la firma del marito o di un parente uomo. E le cure – precisa – possono essere prestate solo da personale sanitario femminile”.

Maria Rosaria Trivisonno (a sinistra) 

Nell’ospedale materno-infantile a Khost – dove nascono 2 mila bambini al mese (numeri che un ospedale italiano in media raggiunge in circa un anno) – MSF assicura anche percorsi formativi per giovani ostetriche. Trasferiscono le competenze a ragazze afghane, favorendone l’indipendenza socio-economica e migliorando l’accessibilità alle cure. “Mancando figure professionali femminili, spesso la donna non si reca in ospedale. Accade anche in circostanze complicate, che rappresentano circa il 15% del totale delle gravidanze. Per questo tante donne finiscono per perdere la vita, non accedendo in tempo alle cure adeguate”.

Spesso c’è carenza di farmaci e strumenti diagnostici, le strade sono interrotte e le distanze sono insormontabili. “Il rapporto costante con la comunità locale rappresenta il fulcro delle nostre missioni. Affiancare queste donne durante il parto accende un lumicino di speranza nel buio più tetro. La musica della vita rappresenta la forza di volgere lo sguardo al futuro, nonostante la sofferenza” aggiunge, mentre riflette sul valore della libertà che, talvolta, queste donne ritrovano tra le mura delle strutture di Medici Senza Frontiere.

Trivisonno incrocia quotidianamente storie drammatiche quanto straordinarie. Come quella di una donna alla prima gravidanza gemellare, arrivata in ospedale dopo un lungo cammino, già in travaglio. “Era la notte di Capodanno: le sue condizioni erano compromesse in quanto affetta da malaria, ma il vagito dei suoi due bambini ci ha permesso di accogliere il nuovo anno con gioia”.

Benedetta Capelli, 35 anni – ostetrica tra Haiti e Grecia

Tante sono le vite salvate anche grazie a Benedetta Capelli, ostetrica 35enne piacentina, che racconta la sua missione ad Haiti. “È uno dei contesti più difficili in cui ho lavorato: la situazione di violenza a Port au Prince è imparagonabile. Ho dovuto imparare a conviverci, continuando sempre a lottare”, ammette.

Benedetta Capelli (a destra) 

Le donne sono relegate ai margini di un sistema oppressivo, nonostante ricoprano un ruolo centrale nel sostentamento della famiglia. “Se vengono a mancare, il sistema sociale crolla. In Paesi con un tasso di mortalità materna estremamente alto si capisce da subito l’importanza di tenere in vita e in salute tutte le donne che accedono ai nostri servizi, che sia per un parto o per una visita di contraccezione. Non curiamo solo le donne, ma il villaggio intero”, sottolinea Capelli.

Partorire in sicurezza è, comunque, una chimera. La violenza cronica impedisce spesso di uscire di casa per ricevere cure oppure l’ospedale è troppo lontano da raggiungere. “Tante giovani donne arrivano da noi quando la loro vita, e quella del loro bambino, è attaccata a un filo” sospira. Ma ci tiene a precisare la resilienza di queste donne: “Tra centinaia di persone ammassate su un gommone, troviamo anche bambini e donne incinte stremate. In quelle situazioni disperate dobbiamo applicare protocolli clinici d’emergenza. C’è grande tensione, ma aiutare a mettere alla luce nuove vite in mezzo al mare rincuora tutti” spiega, accennando all’esperienza in Grecia, alle porte dell’Europa, dove bussano tanti migranti.

“Incontro tante donne che hanno passato l’inferno sulle rotte migratorie. La morte è tangibile nei loro occhi. Noi cerchiamo di curare le loro ferite. Anche quelle dell’anima”.



www.repubblica.it 2024-05-12 03:36:48

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