Alzheimer e demenze, al via uno studio su 21 mila persone sane


Entro il 2050 si prevede che 139 milioni di persone in tutto il mondo soffriranno di demenza. Una prospettiva che desta preoccupazione non solo perché i governi dovranno trovare le risorse per assistere, supportare, gestire i malati e le loro famiglie, ma anche perché sul fronte scientifico non si vede ancora una soluzione per arginare il problema. Solo due trattamenti hanno mostrato un limitato effetto nel rallentare il declino cognitivo, mentre la maggior parte delle strategie in studio non ha dato esito sull’essere umano. Alla luce dei ripetuti fallimenti, la notizia del coinvolgimento di oltre 21 mila volontari sani nella Genes and Cognition Cohort all’interno del National Institute for Health and Care Research (NIHR) BioResource arriva come una ventata d’aria fresca. Obiettivo: riconoscere precocemente la malattia e intervenire sulla perdita di memoria prima che sia troppo tardi. E ci sono già alcune evidenze.

Servono più informazioni sulla demenza

La National Institute for Health and Care Research (NIHR) BioResource è una collaborazione tra scienziati e persone volontarie nata nel 2007 per raccogliere informazioni sanitarie utili per far progredire la medicina. Una parte delle persone che scelgono di aderire all’iniziativa viene coinvolta in riferimento a specifiche malattie o progetti di ricerca (sono quindi gruppi di pazienti), ma più o meno la metà sono persone sane a cui viene chiesto di fornire informazioni dettagliate, dalla genetica ai parametri fisici. I volontari danno il loro consenso a essere eventualmente ricontattati per l’avvio di studi e sperimentazioni.

Il gruppo di oltre 21 mila persone della Genes and Cognition Cohort è stato descritto sulle pagine di Nature Medicine dagli scienziati dell’Università di Cambridge. Si tratta di volontari sani tra i 17 e gli 85 anni che si sono sottoposti a test cognitivi e che hanno fornito il proprio Dna, insieme ai propri dati sanitari e ad altre informazioni demografiche, per dare il via al primo studio su larga scala sui cambiamenti cognitivi. Gli esperti, infatti, ipotizzano che alla base dei fallimenti della ricerca per una soluzione al declino cognitivo ci sia il fatto che non conosciamo abbastanza bene i meccanismi alla base e quando compaiano i primi segni di quella che potrebbe conclamarsi come demenza, e che forse i trattamenti sperimentati finora siano stati somministrati quando il processo degenerativo non poteva più essere fermato.

“Abbiamo creato una risorsa che non ha eguali in nessun’altra parte del mondo, reclutando persone che non mostrano alcun segno di demenza invece di persone che già presentano sintomi – ha spiegato Patrick Chinnery del Dipartimento di Neuroscienze Cliniche dell’Università di Cambridge e co-presidente del NIHR BioResource – Questo ci consentirà di abbinare gli individui (sulla base del loro profilo, nda) a particolari studi e di accelerare lo sviluppo di nuovi farmaci tanto necessari per curare la demenza”. I test effettuati per descrivere la coorte forniscono già alcune conferme e ulteriori informazioni sul declino cognitivo. I dati confermano, per esempio, che età, stato socioeconomico e livello di istruzione sono determinanti cognitivi, mentre non ci sono significative differenze di prestazioni tra maschi e femmine nel corso della vita.

I fattori genetici e infiammatori

Diversamente da indagini più piccole precedenti, invece, emerge come quelli identificati come fattori di rischio genetici della demenza (come il genotipo Apoe) abbiano un impatto minimo sulla cognizione di individui sani, sebbene si evidenzi un effetto a partire dalla mezza età. La caratterizzazione dei volontari, però, ha permesso di identificare nuovi fattori di rischio genetici per diversi parametri cognitivi, sottolineando come l’iniziativa del BioResource abbia il potenziale per scoprire nuovi bersagli per prevenire il declino cognitivo.

Ancora, sono emersi due meccanismi che sembrano influenzare la cognizione umana con l’invecchiamento: l’infiammazione, con il coinvolgimento di un particolare tipo di cellule immunitarie del sistema nervoso chiamate microglia, e il metabolismo dei carboidrati nel cervello. “Questo entusiasmante studio è un passo importante per aiutarci a comprendere meglio come iniziano le malattie che causano la demenza e aiuterà nello sviluppo di nuovi trattamenti mirati le prime fasi di queste malattie – ha commentato Richard Oakley dell’Alzheimer’s Society, che finanzia lo studio – I dati, provenienti da oltre 20.000 volontari, ci aiutano a comprendere meglio la connessione tra i geni dei partecipanti e il declino cognitivo e consentono ulteriori analisi innovative in futuro”.



www.repubblica.it 2024-05-15 21:33:00

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