Tumore del seno metastatico, usare la terapia target subito migliora il risultato


Grazie alla ricerca scientifica, oggi le pazienti con tumore al seno metastatico hanno a disposizione diversi strumenti di cura. La loro condizione, di malattia in stadio avanzato, spinge però i ricercatori a studiare nuove soluzioni più efficaci e a domandarsi cosa è possibile fare per prolungare il più possibile il tempo che deve passare prima che il cancro progredisca. Soprattutto per quelle donne che hanno meno opzioni, come le pazienti con tumore che risponde agli ormoni, ma senza espressione di HER2, che sono resistenti alla terapia endocrina.

Da questa esigenza nasce lo studio INAVO-120 che identifica una possibile nuova strategia di cura per le donne, circa il 40% di questa specifica popolazione, che presentano una specifica mutazione di PI3K. “I risultati presentati a Chicago indicano che è preferibile colpire questa mutazione con un farmaco target, inavolisib, il prima possibile, quindi già dalla prima linea di terapia metastatica.

Fino a oggi, invece questa classe di farmaci era usata solo dopo una progressione di malattia e quindi in seconda linea”, spiega Alberto Zambelli, professore associato di Oncologia medica presso Humanitas University e Capo Sezione di Senologia Oncologica, IRCCS Humanitas Rozzano.

Lo studio

Lo studio INAVO-120 ha messo a confronto i risultati ottenuti combinando la terapia standard con l’aggiunta di inavolisib con quelli ottenuti con la sola terapia standard in donne con malattia metastatica resistente alla terapia endocrina e con mutazione di PI3K.

“Gli sperimentatori hanno quindi sfidato lo standard di cura e i dati presentati lo scorso dicembre al congresso di San Antonio hanno dato loro ragione: la sopravvivenza libera da progressione è raddoppiata – va avanti Zambelli -. Ora i dati discussi ad ASCO aggiungono delle informazioni importanti per definire un possibile nuovo algoritmo di cura. Infatti, quando analizziamo la sopravvivenza libera da progressione nelle pazienti in cui la malattia progredisce dopo questo trattamento, e che quindi ne ricevono un successivo, continuiamo a vedere un vantaggio in sopravvivenza libera da ulteriore progressione”.

Questo significa che la prima linea di trattamento ha un impatto così importante sulla traiettoria della malattia da non essere compensato dalla terapia in seconda linea. In altre parole, aggiungere inavolisib da subito oppure dopo che la malattia è progredita fa la differenza. Prima è meglio.

Un possibile nuovo percorso di cura

Oggi le pazienti con tumore luminale – cioè positivo ai recettori ormonali e negativo a HER2 – in fase iniziale ricevono una terapia endocrina anti-estrogenica. Se la malattia recidiva durante il trattamento precauzionale o dopo pochi mesi dalla fine si parla di malattia endocrino-resistente.

Per queste pazienti si procede con una prima linea di terapia standard che combina terapia endocrina con farmaci biologici (inibitori di CDK 4/6) e nel caso ci sia una ulteriore progressione si aggiunge in seconda linea un inibitore di PI3K per quelle pazienti che presentano la mutazione. Dopo il secondo fallimento c’è la chemioterapia.

“Ma i risultati di questo studio ci dicono che non è sempre opportuno aspettare la seconda linea per somministrare il farmaco target anti-PI3K, anche perché i dati fanno vedere come inavolisib cominci ad agire fin da subito. Non possiamo permetterci di tenere nel cassetto uno strumento come questo per tirarlo fuori sono in un secondo momento”, commenta Zambelli.

La qualità di vita

Incoraggianti anche i dati sulla qualità di vita, strettamente legati al profilo di tossicità del farmaco che è risultato buono. “Gli effetti collaterali più fastidiosi emergono nel primo mese e poi tendono a presentarsi di meno, per questo è importante gestirli da subito.

Ad ASCO sono stati presentati anche i dati sulla percezione da parte delle pazienti della terapia, registrata attraverso i patient reported outcome : il trattamento non è percepito come particolarmente fastidioso, e sono considerati positivi l’allungamento del tempo libero da sintomi legati al dolore e quello in cui si accede alla chemioterapia”, spiega l’oncologo.

Inavolisib, che negli Stati Uniti ha ottenuto da FDA la designazione di terapia breakthrough, che accelera la sua approvazione in ragione dei risultati fino ad ora ottenuti, non è il primo farmaco sviluppato a colpire la mutazione PI3K. A differenza delle molecole sviluppate in precedenza, però, questa è più selettiva – colpisce cioè in maniera più precisa la mutazione – e quindi provoca meno effetti collaterali. Per questo è stato possibile aggiungerla alla terapia standard per valutarne l’efficacia.

“Si tratta di un farmaco di terza generazione, più maneggevole di quelli precedenti, che – se questi risultati verranno confermati anche dai dati di sopravvivenza globale – potrà cambiare l’algoritmo di cura”, conclude Zambelli. Oggi inavolisb è ancora un farmaco sperimentale e l’autorizzazione europea non arriverà prima del 2025.



www.repubblica.it 2024-06-10 12:01:04

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