L’imitazione ci rende umani: ecco perché lo sbadiglio è contagioso


“E’ un fenomeno che abbiamo in comune con altri animali sociali, e che ci consente di relazionarci con gli altri”. Alessio Avenanti del Dipartimento di Psicologia “Renzo Canestrari” dell’Università di Bologna descrive così quella che gli addetti ai lavori – neuroscienziati e psicologi per lo più – chiamano “imitazione automatica”, quel fenomeno per cui le azioni che vediamo compiere agli altri ci inducono a fare lo stesso. Un esempio su tutti? Lo sbadiglio: se qualcuno lo fa nei paraggi, sarà facile esserne contagiati, e sbadigliare a nostra volta. E oggi, Avenanti e colleghi, svelano alcuni dei meccanismi dietro il fenomeno dell’imitazione automatica. Lo fanno dalle pagine di PNAS, in uno studio finanziato anche dal partenariato esteso in Neuroscienze e neurofarmacologia del PNRR (progetto MNESYS). 

Quanto osservato aiuta a far luce tanto sui meccanismi che regolano la nostra socialità che la plasticità del nostro cervello, ma potrebbe essere sfruttato un giorno per migliorare le pratiche di riabilitazione delle persone colpite da disturbi neurologici o malattie neurodegenerative. Ma andiamo con ordine. 

Studiare le nostre relazioni con gli altri

L’ambito della ricerca coordinata da Avenanti è quello dell’intersoggettività, dice a Salute: “Parliamo di come il cervello ci consente di essere connessi agli altri individui e di come cambia in funzione dell’esperienza”. Quando si parla di imitazione automatica – che sia di un gesto come lo sbadiglio, di un modo di parlare o di un’espressione del volto, come spiega Sonia Turrini dello stesso Dipartimento e prima autrice dello studio – si parla infatti di un comportamento che può essere controllato o quanto meno influenzato. Quello che Avenanti, Turrini e colleghi hanno fatto è stato proprio cercare di capire in che modo fosse possibile controllare questo comportamento agendo sulla plasticità neuronale, ovvero la capacità del nostro cervello di adattarsi in funzione dell’esperienza. L’idea era di capire se, modulando l’azione del cervello – grazie all’utilizzo di tecniche di stimolazione transcranica non invasiva – fosse possibile potenziare o diminuire il comportamento imitativo. 

Potenziare o inibire l’imitazione 

Nel dettaglio i partecipanti coinvolti, spiega Avenanti, dovevano compiere un’azione in risposta a determinati stimoli (come premere un pulsante con un dito piuttosto che con un altro), e dovevano farlo mentre vedevano delle immagini che avrebbero potuto interferire o facilitare l’azione (proprio per incoraggiare o meno il comportamento imitativo). In un altro set di esperimenti erano chiamati a imitare un’azione, in presenza di stimoli chiaramente interferenti. I ricercatori hanno quindi tentato di capire se e come, in seguito a protocolli di stimolazione magnetica transcranica, cambiava la tendenza a imitare o meno il comportamento degli altri. Le stimolazioni hanno riguardato coppie di aree cerebrali, già note per essere coinvolte nella pianificazione ed esecuzione del movimento: “Grazie alla stimolazione possiamo rendere più forte la comunicazione tra due aree o renderla meno efficiente – riprende Avenanti – in questo modo abbiamo così osservato che rinforzando la comunicazione tra l’area ventrale premotoria e la corteccia motoria primaria, era possibile aumentare l’effetto di imitazione, e di contro se indeboliamo questa comunicazione l’effetto diminuisce”. Gli scienziati, continua l’esperto, hanno anche osservato che rinforzando la comunicazione tra la corteccia supplementare motoria e la corteccia motoria primaria, i partecipanti riuscivano a controllare meglio il comportamento imitativo ed erano più bravi a svolgere compiti senza interferenze. Parliamo di aree interessanti perché più o meno sofisticate, e più o meno coinvolte nella programmazione motoria e controllo del movimento. 

I possibili risvolti in ambito clinico per le malattie neurologiche

Ma cosa significa tutto questo? “Comprendere i meccanismi alla base di questo fenomeno può fornire nuove prospettive sul comportamento sociale, che è il contesto entro cui la maggior parte della quotidianità di ognuno di noi si sviluppa”, commenta Turrini. Lo studio però è importante anche perché quanto osservato potrebbe avere dei risvolti clinici, aggiunge Avenanti: “Abbiamo dimostrato la possibilità di rendere i circuiti cerebrali più plastici, che possiamo rinforzare specifiche funzioni, per potenziare dei processi, quelli imitativi in questo caso. Ma guardando oltre, questo in teoria potrebbe aprire le porte allo sfruttamento dei meccanismi di plasticità in ambito riabilitativo, per esempio dopo un infortunio o in caso di lesioni cerebrali, con protocolli non invasivi che mirino a rendere più efficienti le comunicazioni cerebrali facilitando il recupero funzionale”. L’ambito è quello delle malattie neurodegenerative o in caso di ictus, e andrà testato con diversi studi clinici, ben disegnati, precisa il ricercatore. Ma il campo di interesse è vastissimo: “Basti pensare al ruolo dei comportamenti imitativi durante lo sviluppo, negli adolescenti. Comprendere cosa regola l’imitazione automatica, ci potrebbe aiutare a comprendere meglio aspetti più complessi e astratti dell’intersoggettività”, conclude Avenanti.



www.repubblica.it 2024-06-26 15:41:46

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