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Rsa, l’anno zero dopo il Covid: ecco come spendere i fondi Ue

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Punto e a capo sulle Rsa. O almeno si spera. Questo 2020 cui la pandemia ha già assegnato un posto di diritto nei libri di storia potrebbe almeno essere ricordato come l’anno zero di un nuovo modello di assistenza agli anziani. Così fragili che in Italia non siamo neanche in grado di contare quanti il virus ne abbia falcidiati, nel chiuso delle loro abitazioni, in un letto d’ospedale o nella stanza di una Rsa. Lo aveva già drammaticamente dimostrato la survey presentata a giugno dall’Istituto superiore di sanità (Iss), sui decessi nelle residenze sanitarie: il 41% dei morti erano “sospetti Covid”.
«E quell’indagine ha colto solo la punta dell’iceberg, perché appena il 40% delle strutture ha aderito. Di certo è emersa la difficoltà di censire il settore», spiega Graziano Onder, che all’Iss dirige il Dipartimento Malattie cardiovascolari, endocrinometaboliche e dell’invecchiamento.

Mancanza cronica di personale

Oggi con la seconda ondata dei contagi poco è cambiato nella sostanza: nelle Rsa circolano più dispositivi di protezione e ci si è attrezzati meglio per i tamponi, ma manca il personale e a parte le iniziative dei singoli gruppi il settore resta un far west. Tariffe, standard strutturali e setting assistenziali diversi tra Regioni e anche tra Province, nessuna classificazione univoca dei bisogni dei pazienti e quindi impossibilità di raccogliere dati certi e omogenei, scarsa preparazione sanitaria, tecnologie col contagocce, formazione degli addetti inadeguata. Il pianeta Rsa in sintesi sfugge a misurabilità e controllo di qualità. Tanto che gli stessi gestori dei principali gruppi attivi in Italia si dicono pronti a sedersi a un tavolo con il ministero per concordare criteri comuni che li mettano al riparo dal fai-da-te dei territori – alimentato dal federalismo sanitario – e diano nuova linfa al settore. Facendo emergere, si spera, anche il tanto “nero” che c’è.

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Nuove risorse dal Recovery Fund

Il Covid insomma per le cure agli anziani fragili può diventare, dopo la tragedia delle morti silenziose, un’opportunità di chiarezza e qualità. In palio ci sono risorse mai viste: 1,5 miliardi di euro che figurano alla voce Rsa nell’elenco di proposte – in tutto 70 miliardi – con cui il ministero della Salute si è candidato a ottenere una fetta del Recovery Fund. Il capitolo delle cure alla terza età non autosufficiente viaggia su un doppio binario: da un lato l’assistenza domiciliare integrata (Adi)– l’Italia è fanalino di coda in Europa con appena 11 ore l’anno garantite – dall’altro la residenzialità.

Di entrambe c’è estremo bisogno: già oggi sono 4,5 milioni gli ultra 80enni, di cui circa 800mila novantenni; il 33% dei nuclei familiari è “single” e di questi la metà ha più di 65 anni. Gli ospiti (stimati) delle Rsa sono 290mila, con età media di 87 anni. Il 70% ha problemi di demenza.
«Molti anziani è impossibile seguirli a casa – spiega Roberto Bernabei, geriatra e componente del Comitato tecnico-scientifico – e allora invece di spingerli nell’imbuto del Pronto soccorso va organizzata una filiera assistenziale che inizi da check sistematici nello studio del medico di medicina generale a partire dai 75 anni, per stimare le potenziali fragilità. Da qui eventualmente ci si orienta per l’Adi o per la Rsa, soluzioni che devono dialogare per mettere fine a questa Babele. Nelle residenze l’umanizzazione deve passare necessariamente per le tecnologie e per un sistema di valutazione dei bisogni dell’anziano uniforme e validato a livello internazionale, come l’Interrai, che consente di costruire il “fascicolo” indispensabile per ogni monitoraggio. Intanto in ospedale vanno attivate “Unità per la fragilità”, con percorsi separati fin dal Pronto soccorso e una centrale di continuità assistenziale che al momento delle dimissioni sappia dove indirizzare l’anziano. I soldi in arrivo sono un’occasione da non sprecare», aggiunge Bernabei.

Intanto e sempre in vista della partita Recovery fund, all’Istituto superiore di sanità si lavora per dipanare il garbuglio Rsa: «Pensiamo a un sistema di monitoraggio sul modello del Piano nazionale esiti già applicato agli ospedali – afferma Graziano Onder – ma prima ancora va definito l’identikit della Rsa valido per tutto il Paese. Poi bisogna riorganizzare la governance con criteri di qualità e strumenti che rendano comparabili le strutture, e inserire d’obbligo in ogni staff almeno un responsabile medico o un direttore sanitario esperto in geriatria e infezioni. Infine – conclude Onder – vanno migliorati abitabilità e spazi con standard tecnologici che facilitino il contatto con la famiglia anche in periodi come questo, quando il Covid alla fragilità somma la sofferenza della distanza dai propri cari».



www.ilsole24ore.com 2020-11-18 06:19:52

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