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Linfoma non-Hodgkin, nuovi strumenti di cura all’orizzonte

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Un tumore che colpisce ogni anno circa 4400 italiani, per lo più anziani e maschi. E che nel 40% dei casi non viene guarito dalle terapie usate in prima battuta. Stiamo parlando del linfoma diffuso a grandi cellule B, la forma più frequente di linfoma non-Hodgkin. Un tumore aggressivo e difficile da trattare nella cui gestione è forte l’esigenza di nuovi strumenti terapeutici. La buona notizia è che all’orizzonte si vedono diversi nuovi farmaci. “L’algoritmo terapeutico si è molto semplificato grazie all’immunoterapia: oggi sappiamo che quando il trattamento di prima linea non funziona abbiamo davanti tutto il ventaglio messo a disposizione da farmaci e terapie che sfruttano il sistema immunitario, dalle CAR-T ai nuovi anticorpi, che possono essere anche in combinazione con altri farmaci o bispecifici”, spiega Paolo Corradini, direttore della Divisione di Ematologia, Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano.

Nuove opportunità

Oggi i pazienti con linfoma diffuso a grandi cellule B ricevono in prima battuta uno schema immunochemioterapico composto da rituximab – anticorpo monoclonale che riconosce l’antigene CD20 – più 4 farmaci, denominato R-CHOP. In questo modo si ottiene la remissione completa senza successive recidive per il 50-60% dei pazienti. Per il restante 50-40% dei pazienti la seconda linea di terapia prevede una chemioterapia ad alte dosi con trapianto di cellule staminali autologhe. Ma anche in questo caso non si tratta di una strada che porta sempre alla guarigione: per alcuni pazienti non è una opzione, perché le loro condizioni di salute non lo permettono, in altri non sortisce l’effetto sperato. Proprio per coloro che si sono sottoposti a R-CHOP senza risultati tangibili, per quelli in cui il trapianto non è risultato efficace e per le persone che non sono eleggibili al trapianto in prima istanza, è necessario cercare ulteriori prospettive di cura. “Uno dei nuovi approcci impiegati consiste nell’utilizzo dell’anticorpo monoclonale tafasitamab che, contrariamente al rituximab impiegato nella R-CHOP, non riconosce l’antigene CD20, bensì il CD19. In questo modo si va a “bersagliare” un antigene mai colpito prima: tutte le terapie immunologiche di prima linea vanno infatti a colpire l’antigene CD20”, sottolinea Antonio Pinto, Direttore della SC di Ematologia Oncologica dell’Istituto Nazionale Tumori, Fondazione Pascale, IRCCS, Napoli.

Nel corso degli studi i ricercatori hanno capito che tafasitamab funziona ancora meglio se somministrato in combinazione con lenalidomide, un farmaco, quest’ultimo, che rientra nella classe dei farmaci immunomodulanti o immunomodulatori. “Rispetto ad altri nuovi farmaci che stanno arrivando sul mercato, questa combinazione ha dato risultati più convincenti in termini di sopravvivenza libera dalla progressione di malattia, che ha superato i 16 mesi”, afferma Pier Luigi Zinzani, ordinario di Ematologia, Istituto di Ematologia “Seràgnoli” Università di Bologna, IRCCS Azienda Ospedaliero-Universitaria di Bologna. Combinazione a cui i pazienti italiani hanno potuto accedere durante le sperimentazioni, che rappresentano a tutti gli effetti una grande opportunità per i medici e per i malati. “Condurre un trial contribuisce allo sviluppo delle conoscenze, e attraverso la ricerca si può migliorare l’aspettativa di vita dei pazienti”, va avanti Corradini. “In più produce un valore economico in termini di mancata spesa per il Sistema Sanitario: il paziente che entra in una sperimentazione ha a disposizione una nuova chance di cura senza che il Sistema Sanitario debba pagare per essa. Anziché erogare terapie poco efficaci, che costano in termini di ricoveri, terapie ed esami, il Sistema Sanitario può erogare terapie che aumentano il tasso di sopravvivenza a costo zero. Per i medici le sperimentazioni rappresentano l’opportunità di imparare cose nuove; per i giovani ricercatori di avere una formazione migliore e innovativa; e anche in questo caso il Sistema Sanitario ci guadagna”.

Il parere positivo europeo

E proprio la combinazione tafasitamab- lenalidomide ha ricevuto il parere positivo del Comitato per i Medicinali per Uso umano (CHMP) dell’Agenzia Europea per i Medicinali: il primo passo nel percorso che porterà alla commercializzazione del trattamento e quindi, si spera nei prossimi mesi, alla sua disponibilità per tutti i pazienti italiani. 



www.repubblica.it 2021-06-30 09:40:08

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