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La ripartenza delle città dopo il Covid, l’architetto Carlo Ratti e Maurizio Molinari…

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“Abitare e vivere le città post-Covid”. Chi, meglio di Carlo Ratti, urbanista e architetto, docente presso il prestigioso Massachusetts Institute of Technology di Boston, avrebbe potuto dare una risposta a questa nuova sfida?

Festival di Salute. Ratti: “Dopo il Covid, la ripartenza delle città grazie ai Big Data”


L’urbanista torinese (americano di adozione) che la rivista Wired ha inserito fra le 50 persone che cambieranno il mondo e che è considerato fra i 50 designer più influenti in America, sul palco del Teatro Carignano a Torino, si è confrontato sull’argomento con il direttore del quotidiano La Repubblica, Maurizio Molinari. Incontro che ha aperto la seconda serata del Festival della Salute, organizzato dal gruppo Gedi, e inaugurato ieri pomeriggio a Villa Medici a Roma. Ad introdurre i due ospiti Gabriele Beccaria, giornalista della Stampa, e il direttore della Stampa, Massimo Giannini, che ha dato il benvenuto agli spettatori, finalmente in presenza dopo mesi di restrizioni, sottolineando come ci si sia accorti dell’importanza di tornare a guardarsi negli occhi.

Tema del colloquio: la ripartenza delle città dopo il Covid, anche grazie ai Big Data. I rapporti sociali cambiati giocoforza con lo smart working e le misure restrittive, la perdita di quei rapporti casuali che si perdono se ci si vede soltanto su Zoom. Ma anche i riti sociali che cambiano e gli spazi fisici che restano comunque centrali. Come del resto la forza magnetica insita in molte città. “C’è una forza magnetica che ci porta a stare insieme e anche questa volta è stata in grado di avere la meglio sulla forza centrifuga scatenata dalla pandemia”, ha precisato Ratti.

Dunque non dobbiamo temere ciò che veniva paventato alcuni anni fa, ovvero una massiccia fuga dalle città?

“Al Salone di Milano della scorsa settimana, alla domanda di un giornalista che mi chiedeva che cosa fosse la cosa più bella nelle città, ho risposto: le persone. In questi due anni di pandemia però, le abitudini della convivenza fra individui sono inevitabilmente cambiate, i lavoratori sono rimasti a casa ed è stato attivato lo smartworking o il telelavoro”.

Quali sono i benefici e le controindicazioni di questa nuova modalità di lavoro?

“Ne ho parlato la settimana scorsa proprio con la sindaca di Stoccolma e ne è poi emerso un articolo sul Financial Times. Abbiamo sottolineato i grandi vantaggi dello smartworking, che è una dimensione nuova e da un certo punto di vista molto bella. Ma sono convinto che lo spazio fisico sia molto importante e che gli uffici non sono da considerare luoghi morti perché è lì che possono nascere le nuove idee e la creatività. Sono spazi fondamentali per la salute delle nostre reti sociali. In alcune città, come Parigi, si arriverà a una modalità divisa al 50 per cento tra casa e ufficio. Ed è una flessibilità che è un vantaggio, per organizzare meglio le nostre vite e la città stessa. Un modo ibrido, ma credo che stare insieme una, due o tre volte a settimane sia molto importante”.

Proprio per i rapporti…

“Certo, ci sono i legami forti, quelli fra gli amici più stretti, e quelli deboli, punti di collegamento fra le persone. Però alla fine sono importanti anche questi, forse anche i più importanti perché i primi sono chiusi mentre gli altri danno modo di allargare le vedute e far circolare le idee”.

In smart working questi ultimi si perdono, però.

“Beh, attraverso i Big Data è stato possibile verificare che se il lavoro si riduce al solo digitale e alla dimensione da lockdown, i legami deboli, così fondamentali, diventano invece ancora più deboli e vanno persi”.

Ne siamo assolutamente consapevoli noi che facciamo il mestiere di giornalisti, proprio la circolazione delle idee in redazione fa nascere poi il nostro lavoro. Se sono i Big Data ad aver confermato l’importanza dei rapporti a tutti i livelli, in che modo possiamo usarli in soccorso della salute ad esempio?

“Faccio l’esempio del microbioma, che sappiamo essere molto legato alla nostra salute. Fra un po’ d’anni potremo misurare se il microbioma ha dei problemi proprio attraverso i Big Data. Anni fa, in accordo con i ministri americani, abbiamo provato ad analizzare il microbioma collettivo attraverso le acque reflue della città. Lo abbiamo fatto a Boston, e da lì è nato un progetto da applicare a centinaia di altre città americane. In questa circostanza della pandemia una cosa molto utile che può aiutarci a capire come e dove agire in maniera puntuale contro il diffondersi del Coronavirus”.

I Big Data sulla salute dei cittadini sono però questione delicata, no?

“I sistemi digitali e di connessione di oggi, i cellulari, le stesse app, hanno già un tale controllo sulle nostre vite che il problema in realtà non si pone. Vite di persone che abitano città che si sono dovute adattare a esistenze cambiate durante la pandemia. Città governate da amministratori locali che potrebbero trovarsi a dover gestire emergenze anche sanitarie come abbiamo sperimentato”.

Tema caldo per noi in Italia, che a breve vedremo l’elezione di nuovi sindaci…

“Figure fondamentali, lo abbiamo visto proprio in questa tragica occasione in cui spesso sono venuti a mancare i punti di riferimento. Chi governa le città, a volte, ha più responsabilità ed è più decisivo di un capo di Stato. Ma sono i cittadini i primi a dover essere ascoltati, perché hanno un ruolo fondamentale nel capire come trasformare le loro città”.

Lei porta avanti da anni studi sulla micromobilità nelle città. Una mobilità sostenibile.

“E’ sicuramente la svolta di questi tempi e del futuro: parliamo di biciclette, monopattini, scooter elettrici, mezzi che ci cambiano la vita perché non inquinano e ci fanno spostare per quei pochi chilometri che servono, in modo veloce. Anche qui intervengono i dati che possono dirci come meglio collegare i piccoli mezzi con le metropolitane, per rendere il tutto ancora più fluido. Torino in questo senso ha grandi potenzialità, ha un’università all’avanguardia e il futuro è nelle mani delle startup”.

Durante il lockdown gli spostamenti sono stati limitati ed ha avuto invece un grandissimo successo la consegna dei generi a domicilio. Negli Usa Amazon sta mettendo a punto un sistema di microhub di quartiere per ridurre tempi di consegna e tragitti.

“A dire il vero non sono un grande fan di Amazon. Per due ragioni fondamentali: se vivessimo soltanto di consegne a casa, i negozi nel giro di poco sarebbero cancellati dalle nostre città. Sopravviverebbero solo i ristoranti forse. Verrebbe distrutto il tessuto  e lo stesso spazio pubblico delle città. E in più c’è il fattore inquinamento: devo consegnare cose, devo attivare mezzi che le portino a destinazione. Peggio ancora per le consegne veloci. I negozi devono vivere. Anche perché sono il cuore delle nostre città e ci aiutano ad uscire dalla bolla dell’isolamento”.

 



www.repubblica.it 2021-09-10 19:13:36

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