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Covid: vitamina D potrebbe potenziare l’effetto del vaccino

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La vitamina D ha ricevuto una crescente attenzione in questi mesi di pandemia, in particolare per il suo effetto protettivo nei confronti delle infezioni, noto da tempo, e per l’associazione esistente tra una sua carenza e il rischio di sviluppare Covid severo.

“È ormai dimostrato da numerosi studi che bassi livelli di vitamina D nel sangue sono associati allo sviluppo di Covid più severo, a un maggior rischio di ospedalizzazione, di ricovero in terapia intensiva e di morte” ci spiega Adrian Martineau, docente di infezioni respiratorie e immunità della Queen Mary University di Londra, autore di numerosi lavori sull’argomento, intervenuto nel corso della quinta edizione della Consensus internazionale sulla vitamina D organizzata a Stresa da Andrea Giustina, responsabile dell’endocrinologia del San Raffaele di Milano e da John Bilezikian, della Columbia University di New York. “Non ci sono, invece, evidenze per affermare con certezza che c’è una relazione causale alla base di questa associazione. Abbiamo una serie di ipotesi: bassi livelli di vitamina D portano a una disregolazione del sistema immunitario con un peggioramento della malattia; oppure, all’inverso, la malattia grave causa un’infiammazione nel corpo che può influire sui i livelli di vitamina D. Infine, vi sono una serie di fattori cosiddetti confonditori, come l’età, il sovrappeso, l’origine etnica e l’inverno”.

Gli studi

Secondo una revisione di 25 studi clinici relativi all’effetto protettivo della vitamina D sulle malattie infettive, pubblicata da Martineau sul British Medical Journal nel 2017 per un totale di oltre 11mila soggetti, “la vitamina D offre la maggior protezione alle persone con più bassi livelli al basale e funziona meglio se assunta ogni giorno e a dosi intermedie” ci dice “Da allora, sono stati fatti molti altri lavori. Anche alcuni nostri, come quello condotto in Mongolia su bambini con grave carenza di vitamina D e apparso sul New England Journal of Medicine l’anno scorso. Inaspettatamente, non è emersa alcuna protezione della vitamina D sul rischio di sviluppare tubercolosi o altre infezioni respiratorie acute”.

Analogo stupore viene anche dall’aggiornamento della meta-analisi del 2017, 46 studi per oltre 75 mila persone, apparso quest’anno su The Lancet Diabetes & Endocrinology  : “Non è stato confermato il maggior effetto protettivo già visto nelle persone con bassi livelli. Eppure, ciò aveva una plausibilità biologica. Si nota comunque un certo effetto, pur modesto, nel ridurre il rischio di sviluppare infezioni respiratorie”. 

Lo studio Coronavit

Fin da subito i dati epidemiologici hanno suggerito che la vitamina D poteva essere di grande aiuto nel proteggere la popolazione dall’infezione da Sars-Cov-2. Ciò ha indicato una strada da percorrere solo con buoni studi clinici. La vitamina D, infatti, è stata oggetto nel recente passato di enormi aspettative poi ridimensionate e spesso viene consigliata per moltissime malattie diverse. Ma dagli studi scientifici non emergono evidenze altrettanto certe.

Adrian Martineau è il responsabile di uno studio clinico controllato, Coronavit, condotto nel Regno Unito su 6.200 partecipanti per valutare se correggere la carenza di vitamina D durante l’inverno con una dose standard o alta della vitamina possa ridurre il rischio o la gravità del Covid e di altre infezioni respiratorie acute. Le analisi sono in corso e i risultati sono attesi a breve. Altri studi clinici sono in corso in Francia, su adulti anziani ad alto rischio con Covid, in Spagna e negli Usa. 

“Nella vitamina D – conferma Giustina – la strada intrapresa, anche con l’istituzione di gruppi di lavoro tra i massimi esperti presenti a questa consensus, è quella dell’identificazione di sottogruppi di popolazioni più a rischio, come gli anziani, le donne in gravidanza e in menopausa, i pazienti con malassorbimento come quelli con malattie gastrointestinali e andati incontro a chirurgia bariatrica. Per ciascun gruppo, andranno individuate dosi e schemi di supplementazione necessari. Un approccio sartoriale basato sulle evidenze aiuterà a superare la realtà dicotomica molto diffusa, in cui la vitamina D è vista o come panacea di tutti mali o come integratore inutile tra gli altri”. 

 

Potenzia il vaccino

Certo, puntualizza Martineau, nessuna supplementazione offrirà nulla di simile alla protezione che offre un vaccino, dunque parlare di effetto della vitamina D in assenza di vaccino è una sorta di questione accademica. Tuttavia, dice, “ci sono buone ragioni per pensare che la vitamina D possa aumentare la risposta alla vaccinazione. In uno studio dello scorso anno, apparso su Immunotherapy Advances  contro il virus Varicella zoster (vzv) e abbiamo anche mostrato il meccanismo, che ha a che fare con l’inflammaging”.

Invecchiando, infatti, il sistema immunitario è meno ben regolato e generalmente l’organismo si trova in uno stato di infiammazione di basso grado. Che agisce come un freno alle risposte ai vaccini, “ovvero di ciò che chiamiamo immunità specifica. Abbiamo visto che le persone che avevano ricevuto la vitamina D avevano migliori risposte delle cellule T e anche livelli più bassi di infiammazione”. Il ruolo della vitamina D nel potenziare la risposta alla vaccinazione è uno dei quesiti indagati proprio dallo studio Coronavit, partito a dicembre scorso ma terminato questa primavera quando circa il 50-60% dei britannici era stato vaccinato.

Come usare la Vitamina D

Quindi, continua l’esperto, “credo che la vitamina D possa avere tre ruoli: uno nella prevenzione del Covid, il secondo è migliorare la risposta al vaccino, quindi è come un partner nella prevenzione. E poi il terzo è usare la vitamina D nel trattamento delle persone che hanno già la Covid. Ma per dimostrare questo ultimo punto serve un altro tipo di studio, su persone ospedalizzate, e i risultati ottenuti finora sono contrastanti. Dimostrare l’efficacia nel trattamento è più difficile che dimostrarla nella prevenzione. Inoltre, per il trattamento del Covid abbiamo cocktail di farmaci molto potenti con cui difficilmente la vitamina D potrà competere”.

Come mai, nonostante l’enorme quantità di studi e le buone premesse della ricerca di base, poi le evidenze sull’uomo indicano al massimo un piccolo effetto protettivo? “Sembra quasi che gli effetti visti in laboratorio vadano persi quando li traduciamo nel mondo reale” conferma Martineau. I meccanismi biologici alla base delle varie funzioni svolte dalla vitamina D sono indagati in vitro e in vivo e poi anche negli esseri umani. In vitro, le condizioni sono controllate e i risultati puliti. Gli animali, in genere topi, sono tutti geneticamente omogenei, carenti di vitamina D e vivono tutti la stessa vita.

Servono altri studi

“Nell’uomo le cose si complicano tremendamente, moltissimi i processi fisiologici in atto, una grande variabilità genetica e tanti stili di vita diversi” spiega Martineau. “Questo accresce il rumore e diventa difficile distinguere il segnale”. A ciò si aggiunga la disomogeneità metodologica, gli studi clinici hanno diversi dosaggi e ricorrono a diverse supplementazioni. Si lavora in acque molto fangose, numerose sono le fonti di vitamina D, che diventa difficile da controllare rispetto a uno studio clinico su un antipertensivo, ad esempio. Anche qui, la parola chiave sembra essere “testare”: “Forse la spiegazione più probabile per il fallimento di un sacco di studi clinici nella realizzazione della promessa dagli esperimenti di laboratorio sta nel fatto che i soggetti nel braccio di controllo avevano già livelli adeguati di vitamina D”. Dopodiché, “penso questo sia comunque un campo che merita di essere investigato. Perché alla fine abbiamo a che fare con qualcosa che è molto sicuro e molto economico. Anche se dovesse dare un piccolo beneficio, sarebbe comunque importante per la salute pubblica”.

Le Linee guida

Al termine della consensus sono stati elaborati tre documenti finali dedicati rispettivamente agli anziani, alle malattie gastrointestinali e ai limiti delle attuali linee guida, con una dettagliata analisi delle condizioni necessarie a evitare conflittualità e giungere a più robuste evidenze scientifiche facilmente traducibili nella pratica. “Le raccomandazioni andrebbero formulate per specifici gruppi di soggetti, indirizzando indicazioni diverse a persone sane e con patologie. Ad esempio, si è discusso di osteoporosi, la cui prevalenza elevata porta alcuni a ritenerla erroneamente una condizione fisiologica –  riassume Giustina – Il Covid ci ha fornito la possibilità di testare la correttezza di alcune convinzioni scientifiche e la vaccinazione è l’occasione di avvicinare un gran numero di cittadini da sensibilizzare sull’importanza della vitamina D e affrontare l’annosa problematica della carenza negli anziani nel nostro Paese”. Le soluzioni ci sono, dice il professore, tra queste “la supplementazione e la fortificazione dei cibi, come mostrano le esperienze di successo di paesi scandinavi”. 



www.repubblica.it 2021-09-20 20:15:35

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