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Erminia e il tumore al seno: “Perché non sfidare il destino per avere una vita normal…

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IN QUESTO mese dedicato al tumore al seno è facile trovare occasioni per ascoltare le voci di chi “lo ha vissuto”. Storie che si fanno eco, che si sfiorano, che si specchiano, fatte di “elementi” che si ripetono, sempre uguali eppure diversi: la scoperta del nodulo, la diagnosi, l’intervento, la terapia, gli studi clinici, i medici, gli infermieri… Come per i tarocchi del “Castello dei destini incrociati” di Calvino, il significato di ciascun elemento dipende anche dal posto che occupa rispetto a tutti gli altri: dal modo in cui si combina. E la sequenza rivela dei messaggi. Così una signora tra le tante, Erminia, ieri è salita emozionata sul palco di un teatro milanese per mettere giù la sua fila di carte. Il suo messaggio lo raccontiamo questa settimana nella newsletter di Salute Seno (qui il link per iscriversi gratuitamente).

 

Erminia sale sul palco

La sala del Manzoni è piena per metà come richiedono le norme anti-Covid. Ma lei ha comunque davanti a sé più di 400 persone, per lo più donne. La maggior parte ha avuto o ha il tumore al seno. Come lei. Su una di quelle poltrone è seduta anche sua figlia. Sono tutte lì per l’evento “IEO per le donne”, di nuovo, finalmente, dal vivo. Erminia ha in mano un foglio dove ha scritto le cose che vuole dire, per non farsi tradire dall’emozione. Poco tempo prima al suo posto c’era niente meno che Jovanotti: ha raccontato la storia di sua figlia e ha cantato “Bella”, dedicandola a questo pubblico così normale e così speciale al tempo stesso, perché come lui sa bene cos’è il cancro. Adesso è il suo turno e le viene in mente quella frase che dice spesso, citando proprio Jovanotti: “Io penso positivo perché son vivo”. Pensa positivo da 13 anni, Erminia.

 

Prende fiato. “Era il maggio del 2009 quando ho scoperto il nodulo, ma non mi hanno operata, perché subito dopo è saltato fuori che avevo metastasi epatiche e polmonari”. L’incipit non è dei migliori, e di sicuro non ci si aspetta la frase che segue: “Il tumore non ha minimamente cambiato la mia vita. A parte il fatto di dover fare le terapie e i controlli – all’inizio tutte le settimane e poi una settimana ogni tre – a parte questo, ho continuato a lavorare e a fare tutto quello che facevo prima”.

Dalla diagnosi al farmaco sperimentale

Ogni caso è a sé e il percorso di Erminia forse non è il più comune, ma sempre più spesso il trattamento del cancro al seno, soprattutto avanzato, è senza chemioterapia. A fare la differenza nella sua storia è stato poter partecipare fin dall’inizio a uno studio clinico. “Subito dopo la diagnosi, due dei medici dello IEO erano venuti da me e mi avevano detto che forse c’era la possibilità di farmi entrare in una sperimentazione: stavano testando un nuovo farmaco mirato che avrebbe potuto uccidere solo le cellule tumorali. Dissi di sì senza cercare altre informazioni: era la prima volta che si sperimentava quel farmaco, chiamato TDM-1, in Italia. Eravamo una decina di pazienti in tutta Europa. Mi sono fidata e affidata”. 

 

Quando si perde l’equilibrio tra malattia e terapia

Sul suo tumore quel farmaco si rivelò particolarmente efficace e senza grandi effetti collaterali. Due mesi dopo, il nodulo al seno non si vedeva quasi più e le metastasi al fegato si erano così ridotte da non poter essere neanche misurate. La sperimentazione era durata tre anni ma la risposta alla terapia era stata talmente buona che ha potuto continuare la cura per altri due. Dal 2009 al 2013, ogni tre settimane Erminia era andata in ospedale per la flebo e per i controlli. Fino a che, verso la fine di quell’anno, l’equilibrio tra il suo copro, il cancro e il farmaco per qualche motivo si era “rotto”: il nodulo al seno si era risvegliato. “Fu un colpo forse più duro persino della prima diagnosi”, dice Erminia: “A quel punto, però, c’erano i presupposti per fare un intervento. Mi operarono a febbraio del 2014 e un mese dopo ero già tornata alla mia routine: la flebo del martedì ogni tre settimane, con un nuovo farmaco non più sperimentale, chiamato trastuzumab, che non ho più interrotto”.

La seconda diagnosi

La sua storia con il tumore non finisce qui, però. Nel 2019, durante i soliti controlli, viene stato scoperto un nuovo tumore nell’altro seno. Non era una recidiva: questo nodulo era completamente diverso dal primo. Erminia si era allora sottoposta a una nuova operazione e oggi segue due terapie: una per il primo tumore e un’altra per il secondo. “Ho accettato la malattia e penso che sia come dice una delle senologhe bravissime che mi hanno seguito in questi anni: è come se avessi la glicemia alta o una cardiopatia, e per questo devo fare una cura per sempre. Io la prendo così e basta. A un certo punto è la vita che ti dà la forza di vivere. Io sono malata, eppure sto bene. in questi anni ho continuato a lavorare come fisioterapista con i bambini, e una volta andata in pensione ho continuato per un po’ come volontaria. Non lo avrei mai immaginato, ma sono diventata nonna due volte, e tra poco lo sarò per la terza. Ho vissuto tante cose, belle e brutte”.

Il colpo più duro e l’importanza della diagnosi precoce

Tra le cose più brutte c’è stato il tumore al seno di sua figlia, la più piccola, scoperto lo scorso gennaio. Dopo la prima diagnosi del 2009, infatti, Erminia aveva cominciato a far fare ad entrambe le sue figlie l’ecografia al seno ogni anno. La minore ha cominciato che non aveva ancora 30 anni: “Sbuffava ogni volta, non aveva voglia di fare questo esame, ma per fortuna lo ha sempre fatto”, racconta Erminia: “Questo le ha permesso di scoprire il tumore quando ancora non era neanche palpabile, al contrario di me, che ho sentito il nodulo quando era già grande. Le sue cure sono state più pesanti delle mie: ha fatto una doppia mastectomia, la chemioterapia, ha perso i capelli e ha avuto nausea e vomito. È una sportiva, allena una squadra di calcio, e ha dovuto fermarsi per un po’. Ma adesso sta riprendendo in mano tutta la sua vita. Mi ha detto che oggi pomeriggio sarebbe andata a sistemare la bici. E ogni tre martedì facciamo insieme la terapia in ospedale”.

Il senso di raccontarsi

Alla base dei loro tumori non sembra esserci una mutazione genetica nota, ma è evidente che c’è una certa familiarità, per cui l’allerta è sempre alta. “Oggi sono salita su quel palco perché penso che sia davvero importante raccontare le nostre esperienze. Le nostre storie trasportano nella realtà quello che leggiamo sugli studi clinici. Ho sempre voluto parlare della mia malattia con tutti: con amici, con i colleghi al lavoro. Sono una paziente, non un’attrice, ed ero agitatissima là sopra, ma ne vale la pena. Il messaggio che spero passi è che c’è quasi sempre una possibilità in più: allora perché non sfidare il destino. Non per guarire, no. Ma per vivere una vita normale e serena il più a lungo possibile”.



www.repubblica.it 2021-10-08 09:19:20

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