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Alzheimer, conferme di efficacia per il primo farmaco approvato per la malattia

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La malattia di Alzheimer è considerata la patologia che, per diffusione e impatto sulla vita dei pazienti e dei loro familiari, più di ogni altra peserà sui sistemi sanitari da qui a qualche anno. Soprattutto perché, a oggi, ci sono pochissimi strumenti per combatterla. Ma le cose stanno cambiando: negli Usa è stato approvato il primo farmaco e altri sono in fase di studio. Le ultime notizie sulla loro efficacia arrivano dal principale congresso internazionale su questa malattia – la Clinical Trials on Alzheimer’s Disease (CTAD) Conference – che si sta svolgendo in questi giorni a Boston.

I primi risultati arrivano sul fronte di aducanumab, la molecola a cui FDA ha concesso un’autorizzazione accelerata che ha suscitato diverse polemiche, e riguardano l’azione sulla proteina Tau, una delle due sostanze che a oggi si ipotizzano essere correlate allo sviluppo e alla progressione della malattia. Per anni la comunità scientifica è stata piuttosto divisa fra chi pensava che a guidare il processo verso la degenerazione fossero gli accumuli di proteina beta-amiloide e chi invece puntava il dito sulla Tau. “Oggi appare evidente che entrambe sono fondamentali per lo sviluppo della malattia ma che la prima ad accumularsi è la beta-amiloide che a sua volta favorisce l’accumulo di Tau”, spiega Alessandro Padovani, direttore Clinica Neurologica, Università degli Studi di Brescia. “In futuro potremo quindi pensare di trattare la malattia colpendo entrambi i bersagli, come facciamo per molte altre malattie di cui conosciamo diverse cause”.

Che le due proteine siano legate l’una all’altra appare evidente anche sulla base degli ultimi dati di aducanumab: sebbene il suo meccanismo d’azione sia diretto contro l’accumulo di beta-amiloide, i risultati presentati a Boston mostrano una riduzione dei livelli di Tau. “E’ un dato molto importante perché conferma che aducanumab non solo agisce sulla beta-amiloide ma anche sulla versione fosforilata della proteina Tau che è associata alla degenerazione dei neuroni, e poi che questo effetto biologico si può monitorare nel plasma”. I risultati derivano dai prelievi condotti su oltre 1800 pazienti coinvolti negli studi clinici e mostrano che l’abbassamento dei livelli di Tau sono associati a un minor declino cognitivo e funzionale misurato attraverso quattro diverse scale di valutazione. Un dato importante perché proprio la correlazione fra i livelli di proteine e il declino cognitivo e motorio appare come il punto debole dei farmaci allo studio.

“Dobbiamo però cambiare prospettiva: non possiamo avere la presunzione di fermare in 18-24 mesi – questa è la lunghezza dei trial a oggi – quello che si è accumulato per anni e anni. Non lo chiediamo per esempio ai farmaci che agiscono sul colesterolo per diminuire il rischio di infarto, per esempio”, spiega ancora Padovani. Secondo il ricercatore dobbiamo piuttosto capire se il farmaco riesce a rallentare la nave dell’Alzheimer che sta andando alla deriva. Ci riesce? “I dati ci dicono di sì, ma anche che ci vuole tempo prima di eliminare tutta la quantità di amiloide accumulata”, dice il neurologo.

E che la strada per lo sviluppo di farmaci efficaci contro l’Alzheimer sia lunga e tortuosa i neurologi lo sanno da tempo. “Ma siamo fiduciosi, anche alla luce di questi e di altri dati che sono stati presentati a Boston da parte di aziende che perseguono entrambe le strade”, conclude Padovani. Come quelli su semorinemab, molecola non ancora autorizzata, che ha come target Tau, impedendo la sua aggregazione. I dati presentati a Boston dicono che questo approccio, per quanto all’inizio meno promettente, porta a dei risultati: i pazienti fanno registrare un miglioramento cognitivo anche se, purtroppo, non si registrano altrettanti passi in avanti nel linguaggio e nel movimento. Insomma, in futuro avremo bisogno sia di farmaci che colpiscono l’amiloide nelle fasi precoci sia di molecole che agiscono contro Tau, nelle fasi più conclamate. Molti strumenti per una malattia complessa, proprio come succede per il diabete o in oncologia.

 

 



www.repubblica.it 2021-11-12 14:02:49

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