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Un Podcast racconta l’autolesionismo: storie di ragazze interrotte, dalle ferite alla…

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“LA PRIMA volta è stato un graffio, fatto quasi senza pensarci. Avevo trovato un modo per dire: ecco, io sto soffrendo”. 

Angela e Franca non si conoscono, ma hanno entrambe appena 13 anni quando iniziano a ferirsi. Sole, chiuse in bagno, di nascosto. Spesso quando i genitori sono fuori, senza che ci sia ogni volta una precisa causa scatenante.

Gesti inizialmente inconsapevoli che a poco a poco diventano rituali. Parliamo di autolesionismo, atti compiuti con l’intento di farsi male e affrontare il dolore dell’anima. Un rituale che dà al tempo stesso dipendenza, sicurezza e la momentanea illusione di sentirsi meglio, di emergere dal buio. Un autolesionismo che spesso include anche gravi disturbi alimentari.

I corpi sotto assedio di Angela e Franca diventano il diario esteriore del male che provano dentro, il campo di una battaglia che le conduce entrambe, poco più che tredicenni, a tentare il suicidio.

Questo è il loro racconto.


Nell’audio documentario ‘Niente più cicatrici’ ascoltiamo le voci di Angela e Franca, raccolte da Sara Sartori, giornalista e autrice radiofonica, in collaborazione con la dottoressa Arianna Terrinoni, dirigente medico nel reparto di Neuropsichiatria Adolescenti dell’Ospedale Policlinico Umberto I di Roma, che ha seguito e sostenuto le due ragazze nei loro percorsi di guarigione.

Un podcast che racconta in prima persona, con sensibilità, cos’è l’autolesionismo, fenomeno in crescita che sempre più spesso conduce i giovanissimi a ricercare la morte.

Ma le voci di Angela e Franca ci dicono soprattutto come entrambe, oggi, possano raccontare quel che hanno attraversato da una prospettiva diversa, raggiunta dopo aver fatto un profondo percorso di terapia durato diversi anni, grazie all’aiuto di specialisti fra i quali la dottoressa Terrinoni, che ci spiega: “Angela arriva in reparto ricoverata d’urgenza a soli 13 anni e mezzo, con una prima diagnosi di grave disturbo d’ansia. Anche Franca è ancora una bambina quando viene ricoverata per tentato suicidio, ma in un’altra struttura. E quando ne ha 17, viene portata nel mio studio per iniziare una nuova terapia.”

“Quando ho parlato con la dottoressa Terrinoni della mia idea di fare questo audio documentario – racconta l’autrice del podcast, Sara Sartori – lei ha individuato queste due pazienti poiché le riteneva in grado di esporsi e raccontare con la giusta distanza il loro trascorso, anche perché ne sono ormai fuori. E quando ho incontrato Angela e Franca, mi sono resa conto che per loro era molto naturale parlare di ciò che avevano attraversato. La cosa che mi ha colpito è che entrambe fossero consapevoli del fatto che queste cose possono succedere a tutti, che non ci deve essere un tabù. Parlarne era per loro anche una forma di riscatto, come dire “Ecco, io esisto”. Per questo non ci sono esperti o narratori, volevo renderle completamente protagoniste, volevo provare a fare immergere l’ascoltatore nel loro mondo. Le storie di queste due ragazze ci accompagnano in riflessioni e pensieri che sembrano indicarci una strada da percorrere”.

Come è stato per Angela e Franca, tantissimi adolescenti hanno bisogno di aiuto e assistenza specialistica, ma in tutta Italia ci sono solamente fra gli 80 e i 92 posti letto di Neuropsichiatria infantile e adolescenziale. Molte regioni non li hanno proprio e si appoggiano ai reparti di pediatria o, peggio ancora, ai reparti psichiatrici per adulti.

Lo stesso Ospedale Policlinico Umberto I di Roma è in attesa da quattro anni che venga finalmente reso operativo il nuovo reparto di Neuropsichiatria Adolescenti, già esistente ma ancora chiuso, con il quale si potrebbero aggiungere otto posti letto agli otto già operativi.

Angela oggi ha 21 anni e, come sentiamo nel podcast, ama molto cantare. Franca di anni ne ha 19, si è trasferita negli Stati Uniti e vuole diventare medico. Entrambe seguono tuttora una terapia di supporto, ma stanno bene e possono raccontarlo.

Perché uscirne è possibile se si viene curati e per questi ragazzi e ragazze in difficoltà c’è un modo per costruirsi un futuro. L’importante è trovare la terapia giusta. Il reparto di Neuropsichiatria Adolescenti dell’Ospedale Policlinico Umberto I di Roma, ogni anno aiuta decine di giovani ad affrontare questi disturbi. 

Professoressa Terrinoni come aiutate questi ragazzi ‘fragili’. Che tipo di terapia avete scelto?

“Per questa tipologia di pazienti diamo indicazione e adottiamo la DBT-A (Dialectical Behavoiur Therapy for Adolescents), la più usata nei casi di autolesionismo. Il paziente viene inizialmente ‘addestrato’ a seguire comportamenti non disfunzionali che lo inducano a contrastare l’impulso che lo spinge a farsi male. Il format standard è una terapia individuale con il ragazzo accompagnata da quella di gruppo multifamiliare. Per noi l’obiettivo è mettere il giovane paziente in una situazione di protezione e sopravvivenza imparando a riconoscere le sue emozioni, successivamente se lo vorrà potrà seguire seguire anche altri percorsi psicoterapeutici”.

Quali sono i fattori di rischio in questo tipo di patologia? Come accorgerci che l’adolescente sta male?
“Sono malattie subdole e aspecifiche, spesso difficili da riconoscere. Tutte le condotte autolesive costituiscono un serio segnale d’allarme e possono essere o non accompagnate da alterazioni dell’umore improvvise o da un mancato controllo delle emozioni, come dell’impulsività. Ma anche un declino scolastico o un progressivo ritiro sociale vanno tenuti d’occhio”.

A volte i genitori non si accorgono delle condotte autolesive
“Spesso i ragazzi nascondono sapientemente il loro corpo con magliette a maniche lunghe in piena estate o con elastici o bracciali sui tagli. Tengono in posti segreti della stanza strumenti contundenti o lasciano pigiami o lenzuola con macchie di sangue. Tutto va osservato e potrebbe essere un indizio di un attacco al corpo. I ragazzi in questa condizione si chiudono a lungo in bagno e rifiutano qualsiasi tipo di incursione dei genitori nelle loro camere”.

C’è una definizione scientifica di questo attacco al corpo. In fondo anche nei disturbi alimentari si aggredisce il proprio corpo non mangiando o mangiando troppo.
“Nel 1990, lo psichiatra italo-americano Armando Favazza definì le condotte autolesive (Self-Injurious Behavoiur oggi NSSI) come atti distruttivi e intenzionali  rivolti verso diverse parti del corpo, senza intento suicidario . Possono essere distinte in forme dirette, ad esempio, attraverso una lametta o un coltello, oppure in indirette mediante abuso di sostanze o farmaci. Anche il vomito autoindotto può far parte di queste”.

Come fate a conquistarvi la fiducia di questi ragazzi che spesso vogliono nascondersi?
“Non li giudichiamo. Accettare il sintomo è parte della cura. Se un ragazzo resta completamente in silenzio durante la visita, cerchiamo di fargli capire che siamo lì per aiutarlo, che lui/lei non è una perdita di tempo. È  il suo punto di vista che ci porta, ed è un momento che va onorato. Ci capita così di aprire lentamente un varco e di riuscire a dialogare dopo lunghi silenzi”.

Covid ha peggiorato le cose o ha solo portato a galla problemi già presenti?
“Il coronavirus è sicuramente stato un potente acceleratore e ha anche peggiorato alcune situazioni. La prima ondata è stata meno problematica. Molti ‘ritirati sociali’ erano molto felici di stare a casa, ma tanti ragazzi lentamente non hanno accettato la mancanza di socialità. Il secondo lockdown è stato molto più pesante. Gli adolescenti hanno bisogno di Regolatori mentali, quindi la famiglia, le relazioni, le associazioni sportive, che aiutano i ragazzi a costruirsi le giornate e a strutturarsi. Il Covid li ha strattonati dentro ritmi nuovi e alterati, ha abbassato ancora di più le aspettative per il futuro, è aumentata la precarietà e l’incertezza, e per molti quelli più vulnerabili c’è stato anche il problema di una minore possibilità di accesso alle cure”.

Come si strutturano le giornate dei ragazzi nel vostro reparto?
“In genere i pazienti arrivano tramite il pronto soccorso al nostro reparto dopo un episodio di autolesionismo o in caso di un TS o di un’acuzie psichiatrica. Cerchiamo di favorire le loro risorse personali che saranno il terreno per una cura. In genere un ricovero dura una media di 15 giorni. Le loro giornate sono scadenzate da varie attività perché non li trattiamo solo come pazienti. Restano innanzitutto adolescenti. Seguono le lezioni scolastiche, vanno in biblioteca, fanno esercizio fisico e vanno anche in piscina. Poi ci sono le passeggiate nel quartiere, i giochi con la Wi e, seguiti da un operatore, possono navigare in rete. Nascono amicizie a volte profonde. Ma ci sono anche le crisi, impetuose, protratte; i momenti difficili.  In ogni caso cerchiamo di creare un’alleanza con i ragazzi”.

Fra i problemi nei casi di autolesionismo c’è quello dell’emulazione
“È spesso un fattore d’innesco a cui bisogna fare attenzione ed è un effetto che conosciamo bene anche in reparto. Se arriva un ragazzo che si taglia sappiamo che potrebbe influenzare seriamente anche gli altri. Cerchiamo di spiegare ai ragazzi il pericolo di questi gesti, ma sempre con un approccio non giudicante”.

In questo tipo di disturbo psichico si parla molto di familiarità
“C’è una componente genetica, una maggiore vulnerabilità biologica, ma non è solo questo. Contano diversi fattori e in modo particolare l’ambiente in cui il ragazzo vive. Se al bambino non viene fornito un corretto rispecchiamento emotivo, tra lui e l’ambiente si innescheranno disfunzioni sempre maggiori fino alla strutturazione di un vero disturbo psichico. Anche i traumi hanno un ruolo importante. Va inoltre ricordato che gran parte delle malattie psichiatriche esordiscono proprio in adolescenza. Prima si accede alle cure e prima si può sempre gestire questa malattia”.

 

Quando un ragazzo cerca di togliersi la vita o si provoca volontariamente una lesione si parla spesso di atto dimostrativo. Cosa ne pensa?
“Secondo la mia opinione non esistono atti dimostrativi. Spesso quando gli adulti catalogano in questo modo un episodio di questo tipo, il ragazzo lo ripete e si danneggia anche di più. Bisogna fare attenzione e interpretare queste azioni comunque come un bisogno autentico di attenzione. Non vanno sottovalutate. Bisogna stare accanto a questi adolescenti curarli e sostenerli in un momento critico della loro vita”.

Si parla molto anche dell’effetto dei social su questi gesti

“In passato si diceva che i giovani self-harmer emulassero gli emo, per il loro look particolare, o volevano identificarsi con un Johnny Depp o una Amy Winehouse. La malattia psichiatrica, il personaggio sopra le righe, il ‘dannato’, hanno sempre avuto un fascino perverso sui ragazzi. Oggi la rete offre di tutto: grandi opportunità ma anche modelli ‘sbagliati’ da seguire, strade pericolose. Gli adulti devono monitorare tutto questo, incuriosirsi con loro verso questo mondo sconosciuto. Gli adolescenti non vanno dimenticati nelle loro stanze, perché la rete può essere insidiosa”.

Come aiutate i genitori?
“I genitori vanno educati e supportati. Va data loro una restituzione diagnostica e fornite tutte le informazioni sull’utilità dei farmaci che restano comunque sempre una cornice della cura. Devono interpretare l’atto autolesivo del figlio secondo molteplici significati. Può rappresentare un’autopunizione del ragazzo, l’incapacità di tollerare gioia o tristezza o semplicemente, l’impossibilità di fare i conti con la noia. E’ difficile fronteggiare il vuoto in una società in cui tutto è organizzato. Spesso svincolarsi dall’infanzia e crescere può causare un grande disorientamento. Quando un adolescente tenta il suicidio lo fa perché ambisce forse ad una seconda vita o ad un’altra possibilità. Devono capire che possono immaginare un futuro possibile anche nelle loro vite. Inoltre va combattuto il fascino del disturbo mentale. L’identità negativa dà uno stigma ma può dare comunque una forma: è  attraente sì ma alla lunga è solo distruttiva”.

 

 

 



www.repubblica.it 2021-05-28 12:35:19

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