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Sars-CoV-2, la ricerca della cura al Covid studiando il genoma

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10 gennaio 2020. Una data destinata a entrare nei libri di storia. È in quel giorno che viene depositata nei database di tutto il mondo la sequenza di Sars-CoV 2, il nuovo coronavirus causa della pandemia Covid-19. Poche lettere – il genoma del virus è composto da circa 30 mila basi utili alla produzione di sole 7 proteine virali – la cui conoscenza è di fondamentale importanza per comprenderne il suo ciclo vitale. Solo conoscendo il nemico che si ha di fronte è possibile contrastarlo. Grazie alle pregresse conoscenze genetiche sui virus “fratelli” di Sars-CoV 2 – e alle nuove scoperte sui meccanismi molecolari con cui penetra, si replica e fuoriesce dalla cellula – oggi il virus può essere contrastato con successo grazie all’avvento di nuove molecole capaci di bloccarne la crescita.

Una delle fasi più delicate del contagio è l’ingresso del virus nella cellula ospite. È qui che si gioca la partita principale. Ciò avviene grazie alla spike, una proteina posta sulla superficie del virus, che serve come sito di ancoraggio ai recettori Ace-2 posti sulla cellula ospite. Grazie ad approfonditi studi sul meccanismo con cui il virus si “aggancia” ad Ace-2 si è scoperto che la spike viene camuffata per eludere il sistema immunitario grazie alla presenza di molecole di “zucchero”, i glicani. Un espediente messo in atto per non farsi riconoscere e compiere indisturbato il suo ciclo vitale. Non solo, la presenza di questi zuccheri aiuta la proteina spike a migliorare il legame con le cellule da infettare. Ma è proprio questa caratteristica che in futuro, per molti virus che condividono lo stesso meccanismo, potrebbe essere sfruttata a nostro vantaggio. Uno studio della University of California San Diego ha dimostrato che modificando la composizione dei glicani è possibile ridurre l’infettività del virus diminuendo la sua capacità di legarsi all’ospite. Un meccanismo potenzialmente utile nella ricerca di nuovi farmaci capaci di “disinnescare” la forza di Sars-CoV 2.

Ma pensare che l’ingresso del virus dipenda da una semplice interazione tra proteina spike e Ace-2 è riduttivo. Anche in questo caso la genomica strutturale ci viene in aiuto: secondo uno studio realizzato da Martin Beck del Max Planck Institute, la spike non è affatto una “chiave” che si inserisce nella serratura, bensì un qualcosa di estremamente versatile e mobile capace di una notevole flessibilità nell’andare a cercare i recettori a cui ancorarsi. Non solo, a questa particolare caratteristica si aggiunge quella della capacità di mutare in alcune particolari porzioni responsabili del legame con Ace-2. Come spiegato sulle pagine della rivista Nature da Priyamvada Acharya, biologa strutturale presso il Duke Human Vaccine Institute di Durham: “Le modificazioni che avvengono nella porzione S1 della proteina spike aiutano il virus a entrare con più facilità all’interno delle cellule”. Ed è questo il caso delle varianti. La Delta, quella prevalente a livello mondiale, grazie a queste modificazioni è diventata estremamente più contagiosa della versione originaria del virus isolato a Wuhan.

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A dispetto della sua dimensione, Sars-CoV 2 rappresenta un concentrato di efficienza difficilmente eguagliabile da altri virus. Secondo Noam Stern-Ginossar, virologa del Weizmann Institute of Science di Rehovot, sarebbero tre i meccanismi che Sars-CoV 2 mette in atto per raggiungere l’obiettivo. Nulla di nuovo che rappresenta, però, una tempesta perfetta. Sars-CoV 2, infatti, avrebbe preso le parti migliori di tutti i coronavirus.

Il primo step vincente prevede l’eliminazione della “concorrenza”: Nsp-1, una delle prime proteine ad essere prodotte, ha il compito di tagliare tutti gli mRNA della cellula che non contengono “tag” virali, ovvero tutti gli mRNA utili all’ospite per sopravvivere. La cellula ospite è dunque a completa disposizione del virus poiché questo “taglio” porta a una riduzione nella traduzione delle proteine cellulari di oltre il 70%.

Il secondo è lo “spegnimento” di quei segnali d’allarme che la cellula mette in atto per indicare di essere in difficoltà. Nelle varianti emerse sino a oggi, infatti, alcune mutazioni riscontrate hanno causato una ridotta capacità di produzione di interferone, molecola chiave per attivare il sistema immunitario nel riconoscere le cellule infettate dal virus. Ed è proprio su questi due meccanismi che si stanno concentrando gli studi nel tentativo di identificare molecole in grado di interferire con la proteina Nsp-1.

 

Inibire la replicazione

Uno dei principali obiettivi di tutte le molecole dirette contro i virus è inibire la loro replicazione. Per farlo occorre studiare in maniera dettagliata il genoma e la struttura delle proteine che concorrono a questo complesso processo. Grazie allo studio sul virus della Sars, oggi cominciamo a raccogliere i frutti della ricerca in ottica Sars-CoV 2. L’obiettivo è colpire una componente del virus, la proteasi virale C3-like, per bloccarne la replicazione. Oggi tutto questo è possibile grazie a paxlovid, un trattamento riproposto da Pfizer con alcune piccole modifiche nella struttura dopo una prima sperimentazione 19 anni fa contro il virus Sars. In questo caso il farmaco, assunto per via orale, appartiene alla categoria degli inibitori delle proteasi, una classe di molecole già in uso nel trattamento di Hiv ed epatite C. Paxlovid, entrato nelle cellule, è in grado di inibire l’attività di una componente, quella che il virus utilizza per assemblare le proteine di cui è costituito. Venendo meno questa capacità, il virus non è più in grado di adempiere alla sua funzione. Per funzionare al meglio, però, la cura prevede anche la somministrazione di un vecchio farmaco per Hiv (il ritonavir) che ha il compito di aumentare il tempo di durata d’azione di paxlovid. Secondo i primi studi, l’utilizzo di questa combinazione entro 3 giorni dall’insorgenza dei sintomi è in grado di ridurre dell’89% il rischio di ospedalizzazione e morte. Una percentuale che si riduce all’85% quando l’assunzione avviene tra i 3 e i 5 giorni.

La strategia del molnupiravir: indurre in errore

Diversa è la strategia per molnupiravir, un altro farmaco utile contro Sars-CoV 2, sviluppato da Msd e Ridgeback Biotherapeutics. Inizialmente studiato come antivirale contro il virus influenzale, ma da quando è “scoppiata” la pandemia la molecola è stata oggetto di sperimentazione negli individui positivi a Sars-CoV 2. Il farmaco in questione appartiene alla categoria degli analoghi nucleosidici, molecole simili per struttura ai “mattoni” con cui è costituito l’RNA virale. Molnupiravir, una volta entrato nella cellula infetta, viene utilizzato come “mattone” per la costruzione di nuove particelle virali. Ma l’incorporazione di questa molecola porta il virus ad accumulare errori che vanno a vanificarne la replicazione.

Tradotto: il virus, pieno di errori di “copiatura” nel suo codice genetico, non può replicarsi e sopravvivere.

Secondo i risultati ottenuti nei diversi trial, molnupiravir è stato in grado di ridurre del 50% le ospedalizzazioni (e il rischio di morte) nei pazienti ad alto rischio di sviluppare malattia severa. L’effetto si registra quando il farmaco viene assunto entro 5 giorni dall’insorgenza dei sintomi.

 

Bloccare l’uscita

Ma la ricerca di ulteriori farmaci contro Sars-CoV 2 non è affatto conclusa. Come insegna la storia dei virus – purtroppo l’agente infettivo, nel tempo, sviluppa meccanismi di resistenza a lungo termine – è fondamentale poter contare su più armi in grado di colpire selettivamente i diversi meccanismi che il virus mette in atto per replicarsi e infettare nuovi individui. Un meccanismo che potrebbe essere sfruttato in futuro è quello dell’uscita delle nuove particelle di Sars-CoV 2 dalle cellule. Per anni, grazie ai dati disponibili su altri coronavirus, si è sempre pensato che le particelle virali venissero espulse dalla cellula attraverso il complesso di Golgi, un apparato che tramite la formazione di vescicole trasporta i nuovi virus dalla cellula all’esterno. Con Sars-CoV 2 tutto cambia: secondo uno studio pubblicato da Nature, opera dei ricercatori del National Heart, Lung, and Blood Institute in Bethesda, Sars-CoV 2 anziché sfruttare il complesso di Golgi utilizza come uscita i lisosomi, strutture conosciute da decenni per essere i trasportatori della “spazzatura cellulare”. Una caratteristica che, secondo Carolyn Machamer della Johns Hopkins University, “potrebbe essere sfruttata nel tentativo di sviluppare nuovi farmaci antivirali diretti contro Sars-CoV 2”.

 

Dallo studio del genoma virale arrivano anche indicazioni utili per la progettazione di nuovi vaccini. Quelli attualmente in commercio stimolano principalmente la produzione di anticorpi da parte delle cellule B del sistema immunitario. Ma nella risposta al virus c’è un’altra componente, le cellule T, che potrebbe fornire la soluzione a lungo termine. Recentemente uno studio pubblicato da Nature ha indagato perché alcuni individui fortemente esposti al virus senza vaccinazione non sviluppano comunque alcuna risposta al virus come la positività al sierologico e al tampone molecolare.

Dalle analisi è emerso che in questi individui erano presenti gruppi di cellule T particolarmente reattivi contro un ampio spettro di bersagli virali. In particolare, nello studio è emerso che queste cellule T della memoria erano in grado di riconoscere quel complesso meccanismo di trascrizione e traduzione dell’RNA virale. Nello specifico la componente più colpita dalle cellule T di memoria delle persone resistenti è risultata la polimerasi virale, un enzima altamente conservato in tutti i coronavirus, Sars-CoV 2 compreso. In questi individui, l’incontro con altri coronavirus in precedenza ha dato modo di sviluppare cellule T della memoria capaci di riconoscere le zone del genoma virale identiche tra i diversi coronavirus. Risultato? Una maggiore capacità di riconoscere le cellule infettate da Sars-CoV 2 nelle primissime fasi dell’infezione.

L’aver individuato questa popolazione di cellule sta aprendo ora la strada allo sviluppo di nuovi vaccini capaci di generare una risposta specifica delle sole cellule T. Un esempio è rappresentato dalla biotech inglese Emergex: la sperimentazione del vaccino inizierà in Svizzera il prossimo 3 gennaio su 26 volontari. A essere somministrate, per mezzo di un cerotto con micro-aghi, saranno delle molecole di sintesi che mimano alcune proteine virali capaci di stimolare in maniera specifica le sole cellule T.  L’obiettivo non è quello di aggiungere un nuovo vaccino contro Covid-19 a quelli già presenti bensì fornire uno strumento utile a migliorare ulteriormente l’immunità a lungo termine.



www.repubblica.it 2022-01-04 10:14:36

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