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Long Covid, quali sono i fattori di rischio

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Un terzo delle persone che si ammalano di Covid-19, una volta passata l’infezione acuta, continua a sperimentare sintomi per oltre quattro settimane: stanchezza cronica, mancanza di respiro, tosse, ma anche manifestazioni neurologiche e difficoltà cognitive, come la brain-fog (nebbia mentale), la perdita di concentrazione e di memoria.

I clinici la chiamano Long Covid o Sindrome post-acuta Covid-19 (Pacs) e a distanza di due anni dall’inizio della pandemia non se ne conoscono le ragioni né si è in grado di predire in modo affidabile chi rischia di più. Oggi, però, un team dell’università di Zurigo (Svizzera) sostiene di aver individuato una “firma” molecolare che, in combinazione con altri fattori, potrebbe essere impiegata per identificare i pazienti che hanno più probabilità di sviluppare Long Covid. Servono ulteriori ricerche, ma il metodo potrebbe consentire di iniziare precocemente terapie riabilitative o addirittura preventive.

Il campione di studio

Come spiegato nell’articolo appena pubblicato sulle pagine di Nature Communications, per provare a capire di più sul Long Covid i ricercatori hanno seguito nel tempo 175 persone risultate positive al coronavirus (per 134 di loro il follow up è durato un anno) confrontandole con 40 controlli sani. Tra i positivi, 89 hanno avuto una forma lieve di Covid-19, mentre 45 sono state classificate come forme gravi: ben l’82,2% dei casi gravi e il 53,9% dei casi lievi hanno poi sviluppato la sindrome Long Covid, intesa come il perdurare di sintomi relativi a Covid-19 per più di quattro settimane dall’insorgenza della malattia.

Il metodo

Il team ha raccolto nel corso del tempo numerose informazioni: anamnesi, fattori di rischio pregressi, informazioni cliniche sull’andamento dell’infezione (sintomi sperimentati, etc) e i valori di diversi tipi di anticorpi (o immunoglobuline) nel sangue.

Chi è più a rischio

Analizzandoli, gli esperti hanno identificato un profilo del paziente a rischio di sviluppare Long Covid: età avanzata, storia di asma pregressa, manifestazione di particolari sintomi (5 per la precisione: febbre, affaticamento, tosse, mancanza di respiro, disturbi gastrointestinali) durante la fase acuta dell’infezione uniti a particolari livelli di anticorpi (IgM e IgG3).

Tutti questi fattori contribuiscono all’assegnazione di un punteggio, uno strumento che, opportunamente validato con ulteriori indagini, potrebbe aiutare a individuare i pazienti più a rischio di sviluppare Long Covid, da indirizzare a consulti medici specialistici per valutare strategie di trattamento personalizzate.

Le ipotesi

Questi risultati, secondo gli esperti, suggeriscono che monitorare nel tempo i livelli di immunoglobuline potrebbe aiutare a fare luce sui meccanismi alla base del Long Covid: potrebbero non essere (solo) il danno tissutale per effetto diretto del virus o l’eccessiva reazione infiammatoria, ma potrebbero esserci dei serbatoi di Sars-Cov-2 persistenti o anche l’attivazione anomala di altre componenti del sistema immunitario.

“Non c’è dubbio che almeno un terzo dei pazienti che hanno avuto Covid-19 abbia conseguenze a medio e lungo termine”, ha commentato Patrizia Rovere Querini, immunologa e direttrice del Programma Strategico per lo sviluppo del progetto “Integrazione Ospedale-Territorio” dell’IRCCS Ospedale San Raffaele. “Il problema è che è difficile identificare le persone predisposte allo sviluppo di sequele. Alcuni tipi di conseguenze, infatti, non sono collegati alla gravità della malattia iniziale”.

Se da una parte per i pazienti che hanno avuto un interessamento polmonare grave o per anziani che subiscono una perdita di autonomia è già messo in conto l’inizio di un percorso riabilitativo e di assistenza, dall’altra per i pazienti che sviluppano sequele neurocognitive e neuropsichiatriche non ci sono indicatori predittivi né percorsi di cura definiti. “Lo studio appena pubblicato segna l’importanza di ciò che stanno facendo molti altri tra ricercatori e clinici, cioè il follow-up dei pazienti per raccogliere dati. L’obiettivo è sviluppare un algoritmo che ci aiuti a individuare le persone più a rischio di Long Covid”, ha aggiunto Rovere Querini. L’identificazione di un marcatore sarebbe davvero importante sotto diversi punti di vista: per la ricerca, perché ancora poco si sa sull’eziologia della sindrome post Covid, ma anche perché permetterebbe di ottimizzare le risorse umane e economiche. “Soprattutto – ha concluso l’immunologa – avrebbe un risvolto cruciale sul paziente, perché prima si riesce a identificare una problematica prima è possibile indirizzare agli opportuni controlli e terapie per prevenire l’insorgere di disturbi più gravi o per agevolare una rapida riabilitazione”.



www.repubblica.it 2022-01-27 07:33:26

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