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Prove di terapia genica per l’emofilia

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Sostituire un gene difettoso può funzionare meglio che somministrare dall’esterno la proteina mancante. È questo uno dei risultati che arriva da una sperimentazione clinica sull’efficacia delle terapia genica contro l’emofilia A, una malattia genetica dovuta alla carenza di un fattore di coagulazione del sangue (il fattore VIII). Quando infatti si “insegna” al corpo a produrre la proteina mancante, gli episodi emorragici tipici della malattia diminuiscono e così anche il bisogno di ricorrere alla somministrazione del fattore VIII. Facendo ben sperare per l’arrivo, un giorno, di una terapia definitiva per questa malattia.

Lo studio su 132 pazienti gravi

A raccontare le promesse e i limiti ancora da superare è uno studio pubblicato nei giorni scorsi sulle pagine del New England Journal of Medicine, che mostra i risultati provenienti dalla sperimentazione clinica GENEr8-1, che ha testato l’efficacia della terapia genica valoctocogene roxaparvovec in 132 pazienti (uomini, perché la malattia, per caratteristiche genetiche, colpisce essenzialmente i maschi) con emofilia A grave. La terapia funziona in maniera molto simile ad alcune già approvate per altre patologie o in fase di studio: sostanzialmente fa uso di un vettore virale (nello specifico un vettore adeno-associato) per traghettare all’interno del corpo l’informazione genetica necessaria alla produzione del fattore mancante. Una buona parte dei pazienti arruolati proveniva da uno studio osservazionale condotto per monitorare l’utilizzo del fattore VIII dato in via profilattica (per prevenire i sanguinamenti) e la ricorrenza di episodi emorragici. La popolazione eleggibile al trattamento comprendeva pazienti che non avevano sviluppato anticorpi contro il vettore usato per la terapia genica, o contro il fattore VIII (può accadere come risposta all’utilizzo dei farmaci nel trattamento della malattia) e sottoposti a profilassi con il fattore VIII. È stata effettuata una singola infusione della terapia genica, mentre la terapia profilattica è stata proseguita per quattro settimane, dopo di che è stata somministrata solo al bisogno.

I dati su valoctocogene roxaparvovec

I ricercatori hanno così osservato che la terapia genica aumenta l’attività del fattore VIII e riduce le emorragie rispetto alla terapia profilattica, sebbene – precisano – con una variabilità piuttosto elevata sia nella stesso paziente sia tra pazienti diversi. Nel complesso, dopo un anno circa l’88% dei partecipanti aveva livelli di fattore VIII uguali o superiori a 5UI per decilitro (dove UI/decilitro è una misura dell’attività del fattore VIII che risulta inferiore a 1 nelle forme gravi di malattia) e il tasso di utilizzo annuale del fattore VIII e dei trattamenti emorragici è diminuito del 98,6% e dell’83,8%, rispettivamente. Insomma: 9 pazienti su 10 non hanno avuto emorragie da trattare o ne hanno avute meno rispetto alla terapia con profilassi (sebbene anche qui la variabilità fosse elevata e in alcuni casi le emorragie ci siano state anche dopo l’infusione). Seguendo alcuni pazienti fino a due anni, i ricercatori hanno anche osservato una diminuzione nel tempo nella quantità di fattore VIII prodotto.

Il rapporto tra benefici e rischi: necessari altri studi

Nel complesso, concludono gli esperti, il profilo benefici-rischi appare favorevole all’utilizzo della terapia genica, malgrado siano necessari altri studi per valutarne efficacia, durabilità e sicurezza. Ma nella pratica potrebbe rappresentare un vero cambio di passo per questi pazienti, come nota Courtney D. Thornburg della University of California San Diego Health Sciences, La Jolla, in un editoriale che accompagna lo studio. Per una singola persona, infatti, se la terapia genica si confermasse efficace, potrebbe significare rinunciare a circa 150 infusioni di terapia profilattica nel giro di un anno, senza rischi di emorragie.



www.repubblica.it 2022-04-08 10:19:07

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